sabato 2 febbraio 2019

Diritti umani: dalle parole (e i Nobel) ai fatti...

Il 2018 si è chiuso lasciandoci in eredità il 70esimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani celebrato il 10 dicembre e l'adozione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio firmata il giorno prima, il 9 dicembre 1948. Due anniversari importanti che per l’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) dovrebbero essere un incentivo per tutta la comunità internazionale affinché a partire da questo 2019 “intensifichi il proprio lavoro contro le gravi violazioni dei diritti umani commesse nel mondo”. Molto lavoro, infatti, rimane da fare visto che dopo 70 anni, per l’APM i crimini contro l’umanità continuano ad essere una drammatica realtà quotidiana: “Rohingya, Yezidi, Darfuri, Uiguri, Kazaki e Sudsudanesi sono solamente alcune delle popolazioni vittime di orrendi crimini, mentre le Nazioni Unite continuano a guardare senza agire”. Così, tra anniversari e celebrazioni, la comunità internazionale è ancora molto lontana dal mantenere la promessa “Mai più Ruanda”, fatta “solo” 25 anni fa all’indomani del genocidio del 1994.

Durante la Conferenza mondiale ONU del 2005 più di 190 paesi dichiararono che si sarebbero assunti la responsabilità di tutelare la popolazione civile mondiale dai crimini contro l’umanità e i genocidi. Da allora più di 600.000 civili sono stati uccisi per crimini contro l'umanità e milioni di cittadini di questo mondo sono stati messi in fuga diventando rifugiati. Per questo per l’APM è ancora troppo poco l’impegno profuso per la prevenzione del crimine di genocidio: “Con spaventosa regolarità la comunità internazionale e i governi ignorano gli appelli delle associazioni per i diritti umani quando queste, di volta in volta, mettono in guardia dal rischio di un’escalation nelle varie crisi e probabili peggioramenti nelle situazioni dei diritti umani”. Così, se non vogliamo che anche la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio si trasformi in un pezzo di carta straccia, “i governi e gli stati devono rinnovare il loro impegno per la tutela della popolazione civile in tutto il mondo e proteggerla dai crimini contro l’umanità”.

Attualmente anche se posti di fronte all’evidenza, molti paesi negano sistematicamente i crimini di genocidio in corso o prendono tempo con nuove ed eterne indagini, tutto pur di non dover adempiere alla Convenzione sul genocidio ed essere costretti ad inviare truppe di pace. Eppure per l’APM “chi si rifiuta di fornire aiuto e assistenza di fronte a crimini contro l’umanità quali stupri, blocchi alimentari che usano la fame come arma di guerra o cosiddette pulizie etniche, si rende a sua volta responsabile e diventa complice dei criminali”. Per le vittime di genocidio, come ad esempio gli Yezidi del Nord dell'Iraq, la negazione dei crimini commessi contro di loro costituisce un'ulteriore violenza e un'umiliazione che a sua volta comporta nuovi traumi e dolore. Nell'estate del 2014 l’IS aveva attaccato i villaggi yezidi nel Sinjar e secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, durante gli attacchi sono state uccise circa 5.000 persone e altre 3.000 donne sono state rapite. Ad oggi, nonostante la tragedia abbia coinvolto migliaia di donne e ragazze yezide rapite, violentate, forzatamente sposate o vendute nei mercati degli schiavi dallo Stato Islamico (IS) nel Nord dell'Iraq, poco o nulla è stato fatto per garantire la sicurezza degli Yezidi anche se la tragedia è stata resa nota dai media e da Amnesty International già dal 2014.

Per questo il Premio Nobel per la Pace assegnato alla yezida Nadia Murad, premiata il 10 dicembre scorso insieme al medico e attivista congolese Denis Mukwege, per l’APM “deve essere inteso come una richiesta d'azione e tutela dei diritti umani”. Parte integrante di questa tutela è proprio la persecuzione legale dei responsabili dei crimini contro l’umanità commessi contro gli Yezidi nella regione del Sinjar nel Nord dell'Iraq, perché secondo l’APM “finché i sunniti radicali e i simpatizzanti dell'IS nell'Iraq del Nord e nella vicina Siria continueranno ad agire in modo indisturbato, gli Yezidi della regione non vedranno alcuna prospettiva di futuro in Medio Oriente”. Nadia, che è tra le poche donne che sono riuscite a liberarsi dal sequestro dei militanti dell’IS, ha sempre rifiutato il ruolo di vittima. Fin dal suo arrivo in Germania ha iniziato a sostenere le donne sopravvissute alle violenze sessuali e a battersi per far riconoscere i diritti della minoranza yezida anche attraverso il tentativo di perseguire legalmente i suoi aguzzini. “Finora gli autori di questi crimini non sono stati portati davanti alla giustizia. Io non cerco empatia, voglio azione” ha dichiarato ad Oslo, perché “Senza protezione internazionale non c’è certezza che il terrorismo e il genocidio non tornino”. 

Come per l’APM, anche per Nadia, “Il solo premio al mondo che ci potrà ridare la dignità è la giustizia e il perseguire i criminali. Non c’è riconoscimento che possa compensare la nostra gente perseguitata solo per essere Yazidi”. Oggi dopo i gravi crimini contro l'umanità commessi nel Sinjar molti Yezidi hanno completamente perso la fiducia nella comunità internazionale e nelle forze di sicurezza, sia del Governo centrale iracheno, sia del Governo autonomo del Kurdistan. Per questo motivo non vogliono tornare nei loro villaggi e almeno 280.000 dei 430.000 Yezidi che sono dovuti fuggire dagli attacchi dell'IS vivono tuttora in campi provvisori del Kurdistan iracheno. Per loro e per tutte le altre vittime di crimini contro l'umanità il Nobel a Nadia Murad è un segno di solidarietà e di speranza, ma da solo non basta più!

Alessandro Graziadei

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