sabato 12 novembre 2011

Freedom Waves denuncia la violenza dell'esercito israeliano

Nei giorni scorsi unità da guerra della marina israeliane hanno fermato e abbordato le due imbarcazioni di Freedom Waves, l’irlandese “Saoirse” (Libertà) e la canadese “Tahrir” (Liberazione) partite il 1 novembre dalla Turchia e dirette a Gaza con l’intento di rompere il blocco navale della Striscia e consegnare materiale sanitario per oltre 30 mila dollari. Questa missione rappresenta di fatto l’undicesimo tentativo di rompere l’assedio di Gaza via mare. Delle precedenti, cinque sono riuscite a raggiungere Gaza tra agosto e dicembre 2008, mentre le altre sono state intercettate e violentemente bloccate da Israele.
La nuova campagna, “Freedom Waves to Gaza”, era partita in sordina con l’obiettivo dichiarato di non dare il tempo alle autorità israeliane di preparare contromisure, come accaduto lo scorso luglio con la Freedom Flotilla II, bloccata nei porti greci dai divieti del governo di Atene messo sotto pressione da Tel Aviv e Washington. Tuttavia, anche se in modo meno cruento rispetto a quello del maggio 2010 costato questa volta alla Freedom Flottilla I un bilancio di 8 cittadini turchi e 1 americano di origine turca uccisi dalle forze speciali della marina israeliana, anche la spedizione iralandese-canadese della Freedom Waves è stata bloccata nonostante l’intenzione della piccola flotta di attivisti fosse quella di navigare in acque internazionali ed entrare direttamente nelle acque territoriali di Gaza, senza attraversare quelle israeliane.
Alla domanda della marina israeliana “Qual è la vostra destinazione finale?” dalla Tahrir hanno risposto “Il miglioramento dell’umanità”, respingendo poi l’intimazione giunta dalle navi militari israeliane di invertire la rotta o di dirigersi verso i porti egiziani. Secondo una dichiarazione dell’Israeli Defence Force (Forze di Difesa Israeliane), poiché le barche non hanno cambiato rotta, è stato ordinato alla Marina di abbordarle e dirottarle sul porto di Ashdod in Israele, da dove i passeggeri sono stati condotti in carcere con l'accusa di ingresso illegale in Israele, anche se l'ingresso è avvenuto contro la loro volontà.
Nonostante le rassicurazioni di Tel Aviv sull’abbordaggio pacifico della Saoirse e della Tahrir, le dichiarazioni del giornalista di Democracy Now Jihan Hafiz e del professore canadese David Heap smentiscono ampiamente tutte le fonti militari israeliane per le quali “la Marina di Israele ha adottato ogni precauzione necessaria per assicurare l’incolumità degli attivisti a bordo delle navi”. “Due cannoni ad acqua - ha raccontato Hafiz - hanno iniziato a sparare getti sulla nave irlandese allagandola, fulminando le prese e facendo saltare il sistema elettrico”, successivamente i militari avrebbero “puntato le armi alla testa dei passeggeri, picchiandoli, maltrattandoli, perquisendoli e filmandoli nudi”. Secondo la testimonianza di Heap, resa pubblica dal suo avvocato che ha potuto visitarlo sabato scorso nella prigione di Givon dove è detenuto, “sebbene sia stato colpito con pistola taser e ferito durante la rimozione forzata, David sta fondamentalmente bene”. “Tuttavia - ha spiegato Heap - io e altri attivisti siamo stati portati via con mani e piedi legati, ma non siamo né criminali né clandestini: siamo prigionieri politici dell’apartheid dello Stato d’Israele”.
Anche stando al racconto dell’attivista Fintan Lane, che si trovava a bordo della Saoirse e che sabato scorso è riuscito a contattare Claudia Saba dalla prigione israeliana di Givon, “i soldati israeliani hanno messo in azione pompe ad acqua ad alta pressione contro le navi e hanno puntato le pistole contro i passeggeri attraverso i finestrini che poi sono stati spaccati mentre il ponte della nave ha quasi preso fuoco. Le due barche sono state recintate a tal punto che sono entrate in collisione e sono state danneggiate” ha concluso Lane condannando l'atteggiamento israeliano nell'abbordaggio delle navi come “violento e pericoloso”.
“Per quale ragione sono stati arrestati? Navigavano in acque internazionali” si chiede ora la portavoce dell’imbarcazione irlandese Claudia Saba, specificando che il carico era composto esclusivamente da “forniture e medicinali per Gaza” insieme ad un gruppo eterogeneo di “27 passeggeri inclusi giornalisti ed equipaggio”.
 Ora non solo l’abbordaggio, ma anche il trattamento subito dai prigionieri nelle carceri israeliane è messo sotto accusa dagli attivisti della Freedom Waves, secondo i quali “perfino ai familiari di molti delegati è stato impedito di mettersi in contatto con i passeggeri incarcerati” e trattenuti con la curiosa accusa di emigrazione clandestina in Israele.
Nella lettera consegnata al suo avvocato, David Heap (che in queste ore dovrebbe essere liberato) ha stilato una lista di richieste per le quali i pacifisti detenuti ancora in attesa di liberazione stanno facendo pressione: come il diritto di associazione tra le celle e la diffusione di notizie sulla sorte degli altri attivisti. “Siamo molto preoccupati per Majd Kayyal - ha scritto Heap - il nostro compagno palestinese di Haifa che era a bordo della Tahrir e che abbiamo visto per l’ultima volta nel porto di Ashdod”. Per lui c’è il rischio di finire in detenzione amministrativa, senza bisogno di un processo né di una condanna da parte di un giudice. 
Mentre per esprimere solidarietà alla Freedom Waves si è mossa anche la società civile con attivisti palestinesi ed ebrei impegnati in questi giorni in manifestazioni per la pronta liberazione di Kayyal e degli altri pacifisti a bordo delle due navi (nove dei quali sono già stati espulsi e le loro prime testimonianze sono già apparse sui principali social media), Heap ha voluto ribadire a nome dei due equipaggi che “Ogni detenzione politica è ingiusta, ma vorrei sottolineare che, per durata e condizioni, la nostra situazione impallidisce in confronto a quella di migliaia di prigionieri politici palestinesi detenuti nella prigione a cielo aperto di Gaza”.
Ora 18 dei 27 attivisti ancora trattenuti in carcere rischiano due mesi di reclusione senza accusa né processo. In un comunicato dell’ufficio stampa della Freedom Flottila diffuso ieri, gli organizzatori spiegano qual è l’unica condizione concessa dalle autorità israeliane per evitare questo tipo di detenzione amministrativa: “Il giudice ha chiesto loro di firmare una dichiarazione secondo la quale sarebbero entrati in Israele volontariamente e illegalmente”. Un’ammissione che molti degli attivisti non sono disposti a fare poiché non sembra corrispondere alla realtà dei fatti. Tuttavia anche se bloccata a 27 miglia da Gaza, Freedom Waves ha approfittato dell’iniziativa soprattutto per inviare un messaggio alla comunità internazionale, in primis alle Nazioni Unite, chiedendo di prendere azioni immediate che pongano fine al criminale embargo sulla Striscia, blocco in violazione dalla Quarta Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili.
Alessandro Graziadei

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