domenica 15 settembre 2013

Kenya: tra crimini contro l’umanità e risorse di comunità


Il 5 settembre scorso il parlamento del Kenya ha approvato una mozione per ritirarsi dalla Corte penale internazionale. Il voto è arrivato pochi giorni prima dell’inizio del processo, all’Aja, nei confronti del vicepresidente kenyano William Ruto, accusato di crimini contro l’umanità in relazione alle sollevazioni post-elettorali del 2007-8 contro le quali il regime reagì uccidendo oltre 1.100 persone, causando 350.000 feriti e 650.000 profughi e al quale avrebbe dovuto seguire in novembre quello nei confronti del presidente, Uhuru Kenyatta, indiziato a sua volta in un procedimento simile, ma separato. È accusato, infatti, di crimini contro l'umanità, omicidio, deportazione, stupro, e persecuzione, oltre ad aver assoldato i Mungiki (un gruppo criminale) per colpire i sostenitori dell’opposizione.
“Il voto del parlamento del Kenya è un allarmante tentativo di negare una giustizia penale internazionale a centinaia di persone che vennero uccise. È inaccettabile cercare di proteggere chi deve rispondere di crimini contro l’umanità e permettere loro di evitare la giustizia. È anche un pericoloso precedente per il futuro della giustizia in Africa” - ha dichiarato Netsanet Belay, direttore del Programma Africa di Amnesty International. “Ogni volta che la Corte fa un passo in avanti, il regime fa di tutto per sbarrargli la strada”, ha aggiunto Daniel Bekele direttore per l’Africa di Human Rights Watch. “Una mozione del Parlamento per il ritiro del Kenya non può però fermare questi processi, né offrire a Ruto una scusa per non comparire in aula”, visto che il ritiro non diventa effettivo prima di un anno e il Kenya ha quindi ancora l’obbligo di cooperare ai lavori del Tribunale penale internazionale. “Per decenni coloro che trasformarono le elezioni keniote in un bagno di sangue sono riusciti a cavarsela - ha spiegato Bekele - Ora questo processo affronterà in ogni caso il problema dell’impunità nel Paese e potrà forse offrire ai cittadini un’opportunità di giustizia finora negata dal governo stesso”. 
Alla vigilia del processo nell’opinione pubblica sembra prevalere un clima di sfiducia: “Questi due pensano di poter vincere” ha affermato Macharia Munene, docente presso l’Università di Nairobi. “A loro favore vanno i precedenti della Corte, che finora conta solo una condanna” quella di Thomas Lubanga in Congo. Ma mentre i media locali, pur formalmente impegnatisi a seguire il caso, sembrano di fatto tenere un basso profilo, più ottimisti sono invece gli utenti online, che sperano in una svolta storica raccontata dal sito ICC Kenya Monitor che offre tutte le informazioni necessarie per capire e seguire la vicenda, con la diretta dalle sessioni da l’Aia e gli annessi rilanci via Twitter, Facebook e Rss grazie al sostegno della Open Society Justice.
Ma il Kenya in questi giorni non sta facendo i conti solo con “un passato che non passa”. Migliaia di famiglie originarie del distretto di Moyale, nel nord del Kenya, alla frontiera con l’Etiopia, sono, infatti, ancora sfollate dopo il riesplodere degli scontri tribali che dal 30 agosto hanno provocato almeno 20 morti. In due giorni di scontri tra i clan Gabra, Burji e Borana sono state incendiate diverse capanne, ci sono stati numerosi conflitti a fuoco, trentadue scuole primarie e secondarie sono state chiuse dal 2 settembre e le agenzie umanitarie dicono di non essere in grado al momento di fare una valutazione degli aiuti necessari per la popolazione che vive in alcune delle aree più instabili del distretto. Nelle zone di Somare e Teti tutte le attività economiche sono paralizzate e, nonostante le violenze siano finite, la tensione è ancora molto alta.
L’Humanitarian news and analysis (Irin), l’agenzia stampa umanitaria dell’Onu, ha confermato che “Queste violenze si inscrivono nel quadro di una serie di rappresaglie che sono cominciate durante gli scontri tra i Borana ed i Gabra, che il 15 luglio hanno fatto una vittima e tre feriti”. Stephen Bonaya, coordinatore della Kenya Red Cross Society  (Krcs) a Moyale, ha raccontato che “Più di 38.000 persone, cioè 6.381 famiglie, sono state obbligate ad abbandonare il loro domicilio. Una maggioranza degli sfollati ha oltrepassato la frontiera con l’Etiopia, mentre altri si sono installati presso dei parenti a Moyale e nelle contee di Marsabit e di Wajir. Un buon numero di bambini, donne ed uomini sono ancora separati dalle loro famiglie, altre persone sono scomparse. Un team sta aiutando le famiglie a ritrovare i loro parenti ed a riunirli. Per il momento, sono state riunite 60 famiglie. Le famiglie sfollate hanno però bisogno urgente, tra le altre cose, di aiuto alimentare, di riparo, di medicinali, di utensili da cucina, di vestiti e di zanzariere”.
Le comunità della regione, che vivono a cavallo del confine tra Kenya ed Etiopia, lottano da sempre per le loro risorse più preziose: i pascoli e l’acqua per il bestiame, non di rado travalicando lo scontro politico. Isaiah Nakoru, il commissario della contea di Marsabit, ha detto all’Irin che “Il governo ha ormai il pieno controllo. Le milizie delle comunità in conflitto sono state eradicate dalla polizia e dall’esercito. Alcuni sono fuggiti ed hanno attraversato la frontiera […] visto che le inchieste preliminari hanno dimostrato che anche delle milizie straniere armate di mortai e bombe hanno partecipato ai combattimenti”. Alcuni keniani accusano, infatti, gli etiopi di essersi infiltrati nel loro territorio per dar man forte alle milizie tribali che moltiplicano i loro attacchi da quando in Etiopia è iniziata la costruzione di alcune grandi dighe idroelettriche che stanno diminuendo la portata dei fiumi che vanno a finire in Kenya, nell’arida regione del lago Turkana.
Secondo i profughi però non è vero che è tutto sotto controllo e le violenze giurano continueranno se il governo centrale di Nairobi non affronterà le cause profonde del conflitto per i pascoli e l’acqua, coinvolgendo le comunità in guerra ed i loro leader. Come ha detto all’Irin un abitante di Moyale, “Si tratta di un problema politico. Né l’esercito, né la polizia del Kenya possono gestire questo conflitto o mettervi fine. Bisogna fermare i rappresentanti politici, coinvolgere le comunità nel processo politico e condividere equamente le risorse”. Una via possibile, perché in Kenya c’è anche chi nella comunità ci crede tanto da poter dire “Only through community. Si tratta di un motto ormai iscritto nel dna del Saint Martin, un’associazione religiosa di base, registrata come Fondazione, che dal 1999 cerca di rispondere alle esigenze di gruppi di persone vulnerabili, sofferenti e dimenticate. “Proprio attraverso la comunità ove il farsi carico assieme dell’altro è la modalità per costruire il futuro, possiamo mettere in campo quelle energie e risorse che né un singolo, né una famiglia, né la politica possono trovare da soli”. Parole, quelle che arrivano dal Saint Martin, che sembrano un eco di quelle pronunciate dall’ex presidente dell’Assemblea nazionale del Kenya, Francis Ole Kaparo, per il quale “una soluzione pacifica al conflitto in Moyale passa dalla capacità di fare comunità e mettere fine ai agli scontri condividendo le risorse e le speranze”.
Alessandro Graziadei

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