L'isola che ancora c'è

Foto di Alessandro Graziadei
I viaggi hanno una loro vocazione illusionistica che li rende fascinosi e talvolta intossicanti. Come avevo letto in un libro di Maruja Torres qualche anno prima ero consapevole che la maggior parte di noi se ne porta dentro, da sempre, uno che non è una semplice visita o una vacanza, ma un sogno, il cui fine chiede a chi lo intraprende una scommessa o un sacrificio. Un sogno che si alimenta di persone, fotografie, cartoline illustrate, carte geografiche, esperienze di cui ci si sente partecipi nell’oscuro di una sala cinematografica o tra le pagine di un libro. Un piacevole sforzo di fantasia, che prende forma senza voli aerei, senza tempo, senza fatica, e cresce a poco a poco diventando l’amabile malinconia di un atteso spaesamento. Un giorno dopo l’altro il mio immaginario si è popolato di misticismo e associazioni, di levitazioni e solidarietà, di guerre civili e non violenza, il sogno è diventato un’isola, l’isola i Giardini di Ceylon e il mio pellegrinaggio una goccia nel mare della cooperazione allo sviluppo post tsunami.

Volo così verso quell’orecchino sospeso al lobo dell’India, tanto fisicamente quanto culturalmente, in attesa di cooperare con un’isola figlia del paradiso dello Spirito di cui so unicamente quel che si apprende dai libri, e neanche molto, e neanche bene. Gli ultimi due viaggi di Sinbad il marinaio furono proprio nell’isola di Sri Lanka, Serendib, come veniva chiamata dai marinai arabi. Che sia quest’isola la radice del termine serendipity che Walpole declinò come la facoltà di fare inattese e felici scoperte del tutto casuali? La mia guida amplifica aspettative e tormenti raccontandomi che qui non crescono alberi, ma Ficus Religiosa, portati dall’India all’epoca in cui Mahinda diffondeva gli insegnamenti del Buddha. Che stia viaggiando con la presunzione di “aiutare” un mondo troppo tormentosamente saggio?

Mentre per l’aereo, intimo con il cielo, andare in Sri Lanka pare un’impresa gradevolmente ovvia, io sono un po’ a disagio e non certo per la poltrona di classe turistica. Mi confesso che vengo da una penisola dove da tempo l’Assoluto è fuori produzione e stenta a tornare di serie. Come molti europei ideologicamente confusi ho l’impressione che questa nuova frontiera, sia un luogo ad alto Tenore Divino, una foresta nebulare che produce Maestri che quando parlano di Verità non alludono all’ultimo caso giudiziario. Lentamente, quasi con grazia, vedo crescere questa fabbrica di asceti, catena di montaggio di reincarnazioni, magazzino di simboli, deposito di anime inconsumabili, luogo di guerre e tsunami, nel quale il sorriso di Buddha o di Shiva sembra resistano anche senza le nostre pretese umanitarie. Sprofondo nel sonno del mio sedile e aspetto, convinto che il ruolo dell’eccessiva aria condizionata di questo moderno tappeto volante sia soprattutto quello di congelare i miei sogni, evitandone la perplessa diffusione tra le sicurezze dei miei compagni di viaggio.

Scorgo una popolazione che occupa gli spazi lasciati disadorni dalle assenze e certifica l’impressione di aver lanciato una sfida alla guerra e al mare colmando questi vuoti di umanità. Una confusione tranquilla di volti angolosi dai bianchi e larghissimi sorrisi, quasi abbaglianti nel bronzo dei visi, fatta di uomini, donne, e bambini che ci affollano senza lo spietato lamento della sventura e con il decoro di chi conserva l’orgoglio nonostante le difficoltà. Camminando in questa terra di frontiera tra la guerra civile e il mare, mentre ascolto una gratitudine composta, si schiude un mondo di sofferenze lungo un parallelo fittizio che non distingue tra tamil e governativi, ma declina la fine dell’integrazione e l’inizio quotidiano di visibili ferite. Basta un ingranaggio minimo, semplice e infallibile. Ipoteca per i secoli a venire, cifra dell’attimo del passo falso, la mina è un monito pervasivo alla misura costante e all’attenzione perpetua di questa umanità. Da sempre hanno coltivato la terra, ora hanno imparato a temerla. La mia competenza in angosce si trova di fronte a qualcosa d’inedito. Non è una novità lo Sri Lanka, ma sono io che sono un neofita. Lo sono davanti a questa guerra e lo sono ancora di più davanti all’Oceano Indiano, in bilico sull’orlo di una terra che è stata annegata quand’era abituata ad essere soltanto bagnata e lascia ancora dietro di sé le rovine dei suoi avamposti disfatti, stigmate di un recente passato, monito per il futuro, specchio della minaccia. Con fatica penso all’ultimo tempo innocente di tutte quelle vite e ho paura a guardare quelle rimaste, io che guardo il mare ancora come spettacolo per uomini vivi. Da sempre hanno rispettato il mare, adesso hanno imparato a fuggirlo.

Mi accorgo di aver incontrato innumerevoli volte su queste pelli una traccia di Shiva, il dio molteplice che crea e distrugge. Io sono povero, dice un’antica poesia a lui dedicata, ma le mie gambe sono le tue colonne, il mio capo è la tua cupola d’oro. Le cose salde ed immobili crollano, ciò che non ha requie permane in eterno. Esiste un fluttuante e inafferrabile mondo religioso che quando non divide sono convinto aiuti la compostezza di queste genti. Come occidentale, adorno di secolarizzati pezzi di cristianesimo, non posso non provare un’istintiva simpatia per immagini morbide e senza incubo che mai vorrebbero essere inchiodate ed una croce. Dovunque mi trovo, in qualunque ora del giorno, sono immerso in una sacralità giocosa che mi invade con la falsa innocenza pervasiva dell’acqua, ma è tutto senza furore, come in una pacifica germogliazione. Dei, uomini e animali si svelano reciprocamente in un luna-park teologico che non è predicabile, non vuole convincere, ma sebbene sia totalmente aperto, è perfettamente impervio a chi ha perso l’arte di assecondare i sogni. Le mie viscere laiche sono ormai ridotte alla follia delle malattie psicosomatiche.

Mi chiedo quante volte dovrò percorrere ancora le strade di questo Tempio per capire il linguaggio di questa profonda saggezza intorpidita un tempo da crociati della fede, oggi da cooperatori ansiosi di aiuti e febbri tropicali. Per un istante interminabile sono convinto di essere stato catturato da quest’isola e dalla sua capacità metafisica di illudermi che un altrove solidale sia a portata di mano, solo perché è da sempre coltivato dentro queste genti. Mi siedo e faccio per un attimo del mio benevolo sogno occidentale qualcosa di molte misure più piccolo. Purtroppo mi fischiano le orecchie, stringo i pugni e sto già volando verso casa, ma adesso so che basta saper immaginare un’isola perché quest’isola cominci realmente a raccontarci cosa noi abbiamo smarrito nel mare magno delle nostre esistenze.

Alessandro Graziadei - Sry Lanka, 2006