domenica 10 marzo 2019

La Birmania tra riforma agraria e diritti delle minoranze

Oggi, a 4 anni dalle elezioni che hanno portato al Governo la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), guidata dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (con alle spalle 15 anni di arresti domiciliari a Yangon per le sue critiche al regime militare), qualcosa è cambiato in Birmania, ma non abbastanza. Il Paese ha dovuto fare i conti con una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi anni, quella che coinvolge i Rohingya e i loro diritti attorno ai quali anche San Suu Kyi ha seriamente vacillato giocandosi buona parte della sua credibilità anche a livello internazionale. In realtà la persona che in questi anni ha organizzato delle "prove di genocidio" non è stata certo la San Suu Kyi, a cui la Costituzione birmana attribuisce poteri limitati, ma il capo dell’esercito birmano, il generale Min Aung Hlaing, uno degli uomini più potenti e influenti del Myanmar, che probabilmente si candiderà alle elezioni nazionali del 2020 nel tentativo di diventare il prossimo presidente del Paese. 

Accanto alla repressione militare, orchestrata da Min Aung Hlaing, il Governo birmano in questi giorni sta per approvare una riforma agraria che rischia di annullare gli sforzi fatti finora per porre fine a 70 anni di conflitti armati nelle regioni di insediamento delle minoranze etniche del Paese. La nuova legge prevede che entro l’11 marzo 2019 tutti i piccoli agricoltori debbano registrare presso le autorità competenti le richieste di usufrutto dei terreni che posseggono da generazioni, una registrazione che però non garantisce la proprietà, ma semplicemente ne permette l'uso per i prossimi 30 anni. Chi non registra la proprietà rischia l’esproprio e fino a due anni di carcere che possono essere assolti con una pena pecuniaria. Per molte ong e organizzazioni della società civile birmana “la nuova legge disattende i diritti tradizionali di proprietà delle minoranze, non tiene conto del tradizionale usufrutto comunitario della terra da parte delle comunità indigene, né considera la situazione dei profughi che, vista la loro peculiare situazione, non hanno la possibilità di registrare le loro richieste”. La nuova legge, di fatto, penalizza chi come molti Rohingya è stato costretto a fuggire dalle violenze e non può più registrare la propria terra, perdono qualsiasi possibilità di tornare a casa, sia per la perdita della proprietà, sia per il fatto che la mancata registrazione comporta il rischio dell'incarceramento, a vantaggio di un land grabbing di stato.

Lo scorso 25 gennaio Yanghee Lee, incaricata dell’Onu per i diritti umani in Birmania, ha ufficialmente protestato contro la nuova legge che di fatto “espropria i profughi della loro proprietà e dei loro diritti”. Da milioni di piccoli agricoltori la nuova legge è percepita come un tentativo di furto, ma le conseguenze peggiori le avranno i tanti piccoli agricoltori appartenenti a qualche minoranza etnica visto che l’82% dei terreni il cui uso dovrebbe essere regolamentato dalla nuova legge si trova, forse non a caso, nelle regioni di insediamento delle minoranze e saranno principalmente loro a perdere proprietà e diritti. Secondo l’organizzazione Chin Land Affairs Network le comunità indigene dei Chin, per esempio, sono tradizionalmente proprietari di tutto il territorio del loro stato federale e a giorni dovranno fare i conti con le conseguenze di questa "singolare" riforma agraria. Per l’Associazione Popoli Minacciati (APM) “il sospetto di molte organizzazioni indigene e per i diritti umani è che la legge abbia lo scopo di facilitare l'accesso e l’usufrutto della terra a investitori privati, sia stranieri, sia interni” oltre ad ostacolare "il ritorno in patria dei molti profughi che in questi anni sono scappati dalle violenze etniche scoppiate nel paese".

Dal punto di vista politico il risultato della nuova riforma agraria è grave almeno quanto quello economico, infatti, la nuova legge rischia di minare qualsiasi tentativo di dialogo per il raggiungimento di una pace duratura in regioni che da 70 anni sono scenari di repressione e conflitti armatiPer l’APM la conseguenza di queste guerre dimenticate è che la situazione dei profughi non ha mai smesso di essere critica: “Attualmente almeno 106.000 piccoli agricoltori degli stati federali di Shan e di Kachin sono in fuga e altre 100.000 persone appartenenti a diverse minoranze, principalmente Rohingya, vivono in campi profughi in Thailandia. Nello stato federale di Rakhine 128.000 persone sono profughe interne, mentre ulteriori 750.000 Rohingya hanno cercato protezione in Bangladesh”. Una situazione critica nonostante il rimpatrio di  500 rifugiati birmani dalla Thailandia annunciato dall'Onu nelle scorse settimane. Per Aoife McDonnell, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) a Naypyidaw, “I rifugiati ricevono sostegno per il trasporto e assistenza per l’iniziale reinserimento. Al momento, l’Unhcr non reputa tuttavia che la situazione attuale sia del tutto favorevole alla promozione del rimpatrio volontario” anche se "la sicurezza nei loro villaggi d’origine è in fase di miglioramento". Condannati ad una sorta di limbo giuridico, alcuni di questi profughi vivono da anni in campi oltre confine, ed è facile immaginare che prima di un loro definitivo rimpatrio il Governo birmano potrebbe adesso legalmente rubare loro l’unica possibile speranza di sussistenza: la terra.

Alessandro Graziadei

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