sabato 27 aprile 2024

India: i migranti no, ma le armi sì

 

L’India, che dal 19 aprile è tornata al voto con ottantadue giornate elettorali e il coinvolgimento di quasi un miliardo di elettori,  ha intenzione di spendere quasi 3,7 miliardi di dollari per costruire, nell’arco di dieci anni, una recinzione lungo il confine con il Myanmar. Per Delhi il muro, che verrà costruito lungo tutti i 1.610 km della frontiera, dovrebbe servire a mettere un freno a una serie di attività illegali, ma soprattutto dovrebbe bloccare la popolazione migrante in fuga dal conflitto civile birmano. Da quando l’esercito birmano ha preso il potere nel febbraio 2021 con un colpo di Stato, migliaia di persone sono scappate dai combattimenti cercando rifugio anche all’estero. Le popolazioni che si trovano nelle aree di confine tra India e Myanmar spesso condividono legami etnici, ma Delhi teme che un ulteriore afflusso di profughi possa destabilizzare gli equilibri intracomunitari degli Stati nord-orientali indiani. Lo scorso anno, infatti, nello Stato del Manipur sono scoppiate violenze tra le tribù Kuki e Meitei e ancora oggi la situazione non può dirsi pacificata. Le autorità locali avevano incolpato delle violenze la porosità del confine che ha permesso un facile accesso ai migranti in fuga dalla guerra provenienti dal Myanmar. Per questo insieme alla costruzione della recinzione verrà momentaneamente abolita la politica di libera circolazione tra India e Myanmar. 


La notizia era arrivata in gennaio, ma solo da fine marzo ha preso concretezza ed è stata ufficialmente diffusa dal Governo indiano dopo che un comitato governativo ha approvato il budget dell'opera, a cui ora manca solo l’avallo dell’esecutivo guidato da Narendra Modi. Il comitato governativo indiano che ha approvato la spesa di costruzione del muro ha concordato di costruire anche una serie di strade parallele e secondarie che colleghino alcune delle principali basi militari indiane al confine. A causa del terreno collinare e dell’impiego di tecnologia avanzata, la recinzione e la strada adiacente costeranno quasi 125 milioni di rupie (1,5 milioni di dollari) al chilometro, una cifra enorme, se si considera che la recinzione costruita al confine con il Bangladesh nel 2020 era costata "solo" 55 milioni di rupie al chilometro. La blindatura del confine si aggiunge a quella di circa 70 chilometri già in fase di realizzazione sempre lungo il confine che separa lo Stato nord-orientale del Manipur dal Myanmar. I gruppi di attivisti per i diritti umani indiani hanno però sottolineato i rapporti ambigui che legano il loro Governo al regime birmano, al quale vendono regolarmente da anni armamenti, ed hanno espresso preoccupazione, perché la misura rischia di bloccare migliaia di civili in fuga dai bombardamenti dell’esercito, che da quando con un golpe ha preso il potere spodestando il governo guidato da Aung San Suu Kyi, ha avviato un brutale conflitto civile contro le milizie della resistenza, formate da gruppi eterogenei di combattenti appartenenti alle diverse etnie del Paese (ben raccontato dall'Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo).


Come sul delicato confine con la Thailandia a farne le spese, come sempre sono i civili. In base a un rapporto del relatore speciale delle Nazioni unite per il Myanmar, Tom Andrews, pubblicato a maggio del 2023, l'India è il quarto Paese, dopo Russia, Cina e Singapore, ad aver fornito armi al regime militare birmano, ma Modi non sembra essere interessato ad avere a che fare con le conseguenze dirette dei propri commerci, come a dire i migranti no, ma le armi sì. Negli scorsi mesi, in particolare nella regione birmana settentrionale del Sagaing e nel vicino Stato occidentale Chin, in cui la popolazione è in prevalenza cristiana, più di 10mila persone hanno abbandonato le loro case dopo che i soldati hanno fatto irruzione nei villaggi delle municipalità locali, anticipati dai bombardamenti dell’aeronautica. Alcuni villaggi stanno venendo ciclicamente riconquistati dall’esercito e poi dalle milizie e viceversa e in diverse occasioni le truppe dell’esercito birmano hanno circondato campi e abitazioni con mine antiuomo per impedire il ritorno dei civili e fiaccare il sostegno della popolazione locale alle milizie della resistenza. Così mentre gli sfollati interni sono arrivati a circa due milioni di persone, migliaia di civili birmani hanno trovato riparo all’estero, in particolare in Thailandia, sul lato est del Paese, e in India a ovest. Si stima che dal golpe di più di tre anni fa circa 60mila persone siano fuggite verso gli Stati indiani nord-orientali del Mizoram e del Manipur, ma mentre il primo sta accogliendo i profughi, il secondo li sta respingendo. La questione ha a che fare con la composizione etnica della popolazione del nord-est dell’India, una regione anche geograficamente separata dal resto della nazione. Nel Mizoram, infatti, vivono in prevalenza popolazioni di etnia Kuki e di fede cristiana, molto simili ai Chin birmani che fuggono dal Myanmar. La situazione si ribalta invece nel Manipur, dove la maggior parte della popolazione è composta da Meitei, perlopiù indù, che formano il 53% della popolazione. Da mesi, però, il governo indiano locale del Manipur sostiene che l’afflusso di profughi birmani dal confine abbia causato anche un aumento del commercio illegale di armi e di droga, per questo vuole impedire a tutti i costi il passaggio di altri rifugiati, mentre le milizie Chin del Myanmar dichiarano di di aver aiutato le forze dell’ordine indiane ad arrestare alcuni trafficanti di persone e di droga.


È l'ennesimo confine critico per l'India, che in marzo ha avuto frizioni anche con la Cina dopo l'inaugurazione da parte di Modiil 9 marzo scorso, del  tunnel stradale di Sela ai piedi dell’Himalaya. La nuova struttura completa un progetto di importanza strategica iniziato nel 2019 e scavato per 12 km sotto il passo di "Sela", che si trova a 4.200 metri di altezza e collega il distretto indiano di Tawang con il resto dell'Arunachal Pradesh. La zona è importante soprattutto dal punto di vista strategico: la mancanza di strade percorribili e di collegamenti ferroviari nell'Arunachal Pradesh è stata sempre considerata un netto svantaggio per l'India nei confronti della Cina lungo questo confine. Ma negli ultimi anni, il governo Modi ha investito molto nelle infrastrutture del nord-est, con la creazione di nuovi aeroporti, collegamenti ferroviari e strade carrabili come questa. La reazione di Pechino non si è fatta attendere: il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha riferito che il suo Governo ha protestato ufficialmente con New Delhi visto che “L'area di Zangnan è territorio cinese” ha commentato citando il nome con cui Pechino indica l’Arunachal Pradesh. “La questione dei confini tra Cina e India qui non è ancora stata risolta - ha aggiunto Wenbin -. L'India non ha il diritto di sviluppare arbitrariamente l'area di Zangnan in Cina. Le mosse dell'India non faranno altro che complicare la questione dei confini e sconvolgere la situazione nelle zone di confine tra i due Paesi”. Per chi vincerà queste elezioni si prospetta un anno critico lungo i confini indiani. 


Alessandro Graziadei



domenica 21 aprile 2024

Un camper nei conflitti: la centrale nucleare di Zaporizhzhya

Un camper nei conflitti è un podcast settimanale realizzato con una collaborazione di Associazione culturale inPrimisAtlante delle guerre e dei conflitti del Mondo e UnimondoCurato da Francesco Zambelli si pone l’idea di raccontare cosa accade nel mondo, con approfondimenti dedicati alle notizie di esteri che spesso sono trascurate nei grandi media internazionali. 


La centrale nucleare di Zaporizhzhya è oggi al centro del viaggio virtuale con il nostro Camper nei conflitti. In studio Alessandro Graziadei.


 A seguire la rubrica di Amedeo Rossi dedicata alla Palestina: fuoco alle polveri!


Ascolta qui il podcast di oggi

sabato 20 aprile 2024

Energia VS popoli indigeni

 

L'importanza e la centralità della sostenibilità ambientale e sociale nell'opinione pubblica thailandese è aumentata sensibilmente nel corso dell'ultimo decennio e le aree prossime ai confini settentrionali del Paese, abitate da una varietà di etnie e popoli indigeni, sono diventate un laboratorio di iniziative produttive sostenibili per migliorare la qualità della vita ed evitare la migrazione, anche grazie alle attività avviate dalla famiglia reale thailandese che si è impegnata per convertire le piantagioni di oppio in produzioni altrettanto remunerative, ma di minore impatto sociale, come caffè, fiori, tapioca e gelso. Tuttavia questo impegno deve fare i conti con gli interessi dei monopoli economici energetici responsabili di danni ambientali che hanno origine anche al di fuori del territorio thailandese. Gli esempi più attuali e problematici sono l’utilizzo dell’alto e medio corso del Mekong per lo sfruttamento idroelettrico soprattutto da parte cinese con sbarramenti e impianti nel territorio della Repubblica Popolare, in Laos e nel Myanmar settentrionale, con gravi conseguenze per la parte thailandese di questi corsi d’acqua che non vanno solo acquisendo una portata limitata o intermittente a seconda degli interessi energetici, ma vengono anche contaminati in modo diretto o indiretto, da una moltitudine di inquinanti. Negli ultimi mesi un altro caso è emerso con rilievo sui mass media thai, ed è quello delle emissioni originate in Laos  dall’impianto termoelettrico dell’Hongsa Mine Mouth Power Project, situato nella provincia di Xayaboury a pochi chilometri dal confine con la provincia thailandese Nan, abitata dalla minoranza Lua.  


Inaugurato nel 2015 e controllato all’80% da aziende thailandesi, questo impianto brucia annualmente 15 milioni di tonnellate di lignite per produrre energia che esportata in buona parte proprio in Thailandia. A segnalare i rischi dell'impianto è stato inizialmente un rapporto della Banca mondiale che nel 2020 indicava una crescita di cinque volte delle emissioni di anidride carbonica nell'area dall’avvio della centrale di Hongsa. Recenti indagini, inoltre, hanno dimostrato che per circa cinque mesi all’anno i venti trasportano e depositano su una vasta area della provincia Nan le emissioni dell'impianto, composte sia da diossido di azoto e diossido di zolfo, che incrementano l’acidità dei terreni favorendo l’insorgenza di malattie nelle coltivazioni essenziali come riso, caffè e gelso, sia le particelle di mercurio che causano malattie da accumulo di metalli pesanti. A preoccupare oggi è soprattutto la concentrazione di mercurio, che in pochi anni è arrivato fino a 12mila volte i livelli riscontrati in un ambiente incontaminato e che per la sua tossicità ha conseguenze gravissime su tutti gli organismi viventi, compresi i Lua, che entrano in contatto con il mercurio attraverso l'aria, l'acqua e la catena alimentare. La popolazione, alla quale è stato chiesto di utilizzare con cautela l’acqua potabile, registra ogni anno un numero crescente di malattie respiratorie, soprattutto tra i più giovani, e il delicato equilibrio tra l'esigenza di sempre nuove risorse energetiche e la tutela della salute delle comunità locali sembra complicare la rapida soluzione del problema.


Eppure non è impossibile provare a coniugare sostenibilità, energia e diritti dei popoli indigeni. Nelle Filippine l’organizzazione no-profit Sibolng Agham at Teknolohiya (Sibat) un anno fa ha ricevuto il premio del Forum dei popoli indigeni, promosso dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), perché nelle province di Abra, Apayao e Kalinga, regione della Cordillera sull'isola di Luzon, ha creato in tre anni, dal 2020 al 2022, sitemi di energia rinnovabile attraverso strutture di micro-idroelettricità, entità conosciute con l’acronimo CBRES-MHP e sviluppate su base comunitaria. Un totale di 1.684 famiglie di indigeni Igorot ora hanno accesso all'energia in aree non collegate alla rete elettrica, riuscendo così ad alimentare le scuole elementari, i centri sanitari e altre strutture comunitarie, tra cui 11 mulini per il riso, 2 mulini per il mais e 4 impianti per la spremitura della canna da zucchero. Qui i popoli indigeni locali sono stati coinvolti in maniera libera e informata dalle fasi iniziali di progettazione fino all’attuazione del progetto e i responsabili degli impianti sono ora donne, uomini, giovani e persone con disabilità, scelti dalla comunità e formati da Sibat per garantire la manutenzione e il funzionamento degli impianti idroelettrici. Per gli attivisti di Sibat “Le donne indigene e i giovani sono coinvolti anche nelle attività di costruzione e amministrazione, mentre gli anziani e le persone con disabilità fanno parte di un Consiglio di anziani che prende le decisioni più importanti e garantisce il rispetto delle tradizioni indigene. Il progetto ha permesso alle popolazioni locali di proteggere e preservare i propri fiumi e cascate, ma anche di promuovere la propria identità e cultura, facendo valere il diritto all'autodeterminazione”.


Una lezione che anche Papa Francesco, ricevendo un anno fa in udienza i partecipanti al Forum, ha elogiato, ricordando che oggi più che mai “Il contributo dei popoli indigeni è fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico”. “Dobbiamo ascoltare di più i popoli indigeni e apprendere dal loro stili di vita per comprendere fino in fondo che non possiamo continuare a depredare le risorse naturali”, aveva ricordato il pontefice: “Se davvero vogliamo prenderci cura della nostra casa comune e migliorare il pianeta in cui viviamo, sono imprescindibili cambiamenti profondi nei nostri modelli di produzione e di consumo”. Obiettivi ambiziosi, ma realizzabili, come dimostra il progetto energetico, ambientale e sociale attuato da Sibat nelle Filippine!


Alessandro Graziadei


sabato 13 aprile 2024

Viviamo troppi "unclean air days"

 

A livello europeo, lo studio “Population exposure to multiple air pollutants and its compound episodes in Europe” pubblicato lo scorso mese su Nature Communications da un team internazionale di ricercatori guidato dall’Institut de Salut Global de Barcelona (ISGlobal), ci regala finalmente una buona notizia sostenendo che l'inquinamento dell'aria in più di 1.400 regioni di 35 Paesi europei sta migliorando e “I livelli complessivi di particolato sospeso (PM2,5 e PM10) e di biossido di azoto (NO2) sono diminuiti nella maggior parte dell’Europa”. Partendo da una stima delle concentrazioni ambientali giornaliere di PM2,5, PM10, NO2 e O3 tra il 2003 e il 2019, sulla base di tecniche di apprendimento automatico e con l’obiettivo di valutare il verificarsi di giorni che superano le linee guida 2021dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per uno o più inquinanti (gli "unclean air days"), il team di ricerca ha analizzato i livelli di inquinamento che incidono sulla vita di 543 milioni di persone. I risultati elaborati dall'Istituto catalano dimostrano, in particolare, che “I livelli di PM10 sono diminuiti maggiormente durante il periodo di studio, seguiti da NO2 e PM2,5, con diminuzioni annuali rispettivamente del 2,72%, 2,45% e 1,72%”. Tutto bene allora? Non proprio perché “Al contrario, i livelli di O3 sono aumentati annualmente dello 0,58% nell’Europa meridionale, portando ad un aumento di quasi 4 volte dei giorni di unclean air days”. Lo studio ha anche esaminato il numero di giorni in cui sono stati superati contemporaneamente i limiti per due o più inquinanti (i "compound unclean air day") e anche qui il risultato non è confortante: “Nonostante i miglioramenti complessivi, durante il periodo di studio l’86,3% della popolazione europea ha comunque sperimentato almeno un unclean air daysall’anno, con PM2,5 – NO2 e PM2,5 – O3 che emergono come le combinazioni di composti più comuni”.


I risultati evidenziano quindi “Miglioramenti significativi nella qualità dell’aria in Europa seguiti dalla diminuzione di PM10 e NO2, mentre i livelli di PM2,5 e O3 non hanno seguito un trend positivo simile, con conseguente aumento del numero di persone esposte a livelli di aria impura”. Per questo, secondo il principale autore dello studio, Zhao-Yue Chen dell'ISGlobal, “Sono necessari sforzi mirati per affrontare i livelli di PM2,5 e O3 e i relativi unclean air days, soprattutto nel contesto delle minacce in rapido aumento derivanti dai cambiamenti climatici in Europa”. In Pianura Padana però questo trend è particolarmente critico, anche quando si parla di PM10. L'European Space Agency in febbraio ha realizzato, infatti, un video che mostra le concentrazioni orarie di PM10 nella Pianura Padana dal 1° al 31 gennaio 2024. Per i ricercatori dell’Agenzia spaziale il PM10 in particolare gioca un ruolo fondamentale nella dinamica della qualità dell’aria della Pianura Padana, perché qui la topografia e le condizioni meteorologiche uniche della valle contribuiscono al suo accumulo, in particolare durante i periodi meteorologici stagnanti. Attualmente, secondo le direttive e gli standard legali dell’Unione europea, le concentrazioni di PM10 superiori a 50 μg/m³ sono considerate pericolose e questa soglia non dovrebbe essere superata per nessun luogo per un numero specifico di giorni all’anno, generalmente fissato in 35. Tuttavia i livelli di queste concentrazioni orarie indicano che solo nel gennaio 2024 si sono verificati più casi in cui questa soglia critica è stata abbondantemente superata, evidenziando una tendenza costante e preoccupante nelle fluttuazioni della qualità dell’aria padana dei mesi invernali.


Purtroppo la Pianura Padana sembra ricordarci che nonostante questa generale tendenza positiva, certificata da un monitoraggio particolarmente approfondito che l'ISGlobal ha condotto andando oltre le sole stazioni di monitoraggio scarsamente distribuite e raccogliendo dati da più fonti, “Comprese stime degli aerosol basate su satellite, dati atmosferici e climatici esistenti e informazioni sull’uso del territorio”, la situazione rimane critica. Analizzando queste stime sull’inquinamento atmosferico, il team ha calcolato il numero medio annuo di giorni in cui viene superato il limite giornaliero dell’Oms per uno o più inquinanti atmosferici e ne è venuto fuori che “Nonostante i miglioramenti della qualità dell’aria, il 98,10%, 80,15% e 86,34% della popolazione europea vive in aree che superano i livelli annuali raccomandati dall’Oms  rispettivamente per PM2,5, PM10 e NO2”. Lo Studio fa notare che “Inoltre, nessun Paese ha rispettato lo standard annuale di ozono (O3) durante l’alta stagione dal 2003 al 2019. Considerando l’esposizione a breve termine, oltre il 90,16% e l’82,55% della popolazione europea viveva in aree con almeno 4 giorni in più rispetto al valore giornaliero previsto dalle line guida Oms per PM2,5 e O3 nel 2019”. L’autore senior dello studio, Joan Ballester Claramunt , evidenzia come nonostante i miglioramenti nell’inquinamento atmosferico, “Tra il 2012 e il 2019, oltre l’86% degli europei ha vissuto almeno un giorno all’anno con eventi di inquinamento atmosferico compositi, in cui più inquinanti hanno superato contemporaneamente i limiti dell’Oms. Tra questi giorni compositi, il contributo dei giorni composti PM2,5 -O3 è aumentato dal 4,43% nel 2004 al 35,23% nel 2019, diventando il secondo tipo più comune in Europa, e indicando un trend preoccupante”. 


Intanto lo scorso 14 marzo la Commissione europea ha proceduto all’invio di una lettera di costituzione in mora ex art. 260 TFUE all’Italia “Per la persistente mancata esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell’Ue del 10 novembre 2020 (causa C-644/18)”. Nella sentenza la Corte di giustizia ha contestato all’Italia i suoi inattuati obblighi ai sensi della direttiva sulla qualità dell’aria ambiente (direttiva 2008/50/CE). La Commissione europea ha ricorda al governo Meloni che “L'European  Green Deal, che mira all’obiettivo “inquinamento zero”, richiede la piena attuazione delle norme in materia di qualità dell’aria per proteggere efficacemente la salute umana e salvaguardare l’ambiente naturale. La direttiva sulla qualità dell’aria ambiente obbliga gli Stati membri a mantenere al di sotto di determinati livelli le concentrazioni di inquinanti specifici nell’aria, come il particolato PM10. Quando sono superati tali valori massimi, gli Stati membri sono tenuti ad adottare misure per ridurre quanto più possibile la durata del periodo di superamento dei limiti. Sebbene dalla data della sentenza l’Italia abbia adottato alcune misure, nel 2022 si registravano ancora superamenti dei valori limite giornalieri in 24 zone, mentre una zona segnalava superamenti dei valori limite annuali”. Il Belpaese (dall'aria non altrettanto bella) dispone ora di un altro mese per rispondere e rimediare alle carenze segnalate dalla Commissione. In assenza di una risposta soddisfacente, la Commissione potrà decidere di deferire l’Italia alla Corte, con la richiesta di erogare sanzioni pecuniarie. Per il direttore generale di Legambiente Giorgio Zampetti “L’apertura della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia è un chiaro campanello d’allarme di quanto poco stia facendo il nostro Paese sul fronte della qualità dell’aria. In particolare, l’emergenza smog è ormai sempre più cronica a partire dalla Pianura Padana che rappresenta una delle aree più vulnerabili del Paese. Quello che chiediamo è che la qualità dell’aria torni ad essere davvero un tema prioritario nell’agenda politica”. Servirebbe l'avvio di un tavolo tecnico ma anche normativo a livello nazionale, che coinvolga Governo, Regioni e amministrazioni locali, per programmare interventi rapidi e strutturati sul lungo periodo non più rimandabili. Una priorità che però non sembra preoccupare il Governo Meloni, almeno fino all'ufficialità della multa.


Alessandro Graziadei


sabato 30 marzo 2024

Il clima secondo Eni

 

L'Eni prevede di generare un flusso di liquidità delle sue casse aziendali di circa 13,5 miliardi di euro nel 2024 e di 62 miliardi di euro nell’arco dei prossimi 4 anni. Una crescita del 30%, illustrata il 14 marzo scorso dal report Capital markets update 2024-2027, con cui la multinazionale a controllo statale ha delineato un piano di sviluppo industriale dal futuro ancor più roseo sotto il profilo economico, grazie al fatto che per l'azienda l’esplorazione e la produzione di petrolio, gas liquefatto e di altri combustibili fossili, dovrà accelerare e non rallentare. “La produzione Upstream è prevista crescere a un tasso medio annuo del 3-4% fino al 2027, estendendo tale crescita di un ulteriore anno rispetto al Piano precedente” si legge nel report. Una strategia industriale che va in senso opposto non solo al buon senso, ma a tutti gli allarmi sull'uso e l'abuso di combustibili clima alteranti attenzionati dalla stessa Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), che ha recentemente aggiornato la roadmap per arrivare a emissioni nette zero entro il 2050 spiegando che per farlo “Non sono necessari nuovi progetti upstream di petrolio e gas”. Pochi giorni dopo l'annuncio, il 21 marzo scorso, è arrivata la notizia che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e l’IEA lavoreranno insieme per eliminare le fonti energetiche fossili e identificare parametri adeguati per monitorare i progressi globali verso obiettivi di sostenibilità globale, fornendo aggiornamenti che informino e motivino l’azione globale per raggiungere gli impegni internazionali sul clima. Che tempismo per Eni!


Eppure, Eni afferma di voler rispettare i target climatici: “L’obiettivo di net zero per le emissioni Upstream Scope 1 e 2 è confermato entro il 2030, quello di net zero per tutte le attività di Eni Scope 1, 2 entro il 2035; gli obiettivi di riduzione delle emissioni Scope 1, 2 e 3 sono confermati: 35% entro il 2030, 80% entro il 2040 e net zero entro il 2050”. Come? L'azienda intende farlo investendo in attività come le bioraffinerie (un terzo impianto italiano è già in progetto a Livorno e un quarto è in fase di studio) e in altre iniziative dall’efficacia controversa come la cattura e lo stoccaggio della CO2 (Ccs). Secondo Greenpeace ItaliaReCommon e Reclaim Finance, che hanno realizzato un’analisi della strategia climatica di Eni, l'azienda italiana prevede di aumentare la produzione di petrolio e gas e di mantenerla costante fino al 2030, “Così facendo, la sua produzione sarà superiore di ben il 71% rispetto allo scenario emissioni nette zero” e lasciare le briciole per le attività di sviluppo dell'energia pulita, visto che “Per ogni euro investito da Eni in combustibili fossili, meno di sette centesimi sono stati investiti in energie rinnovabili sostenibili”. Attualmente in Eni a crescere è soprattutto il fronte del gas naturale liquefatto (Gnl) e per questo, scondo le tre associazioni ambientaliste, “Sta costruendo nuovi terminali di liquefazione del gas funzionali ai nuovi giacimenti, contravvenendo alle indicazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, secondo cui non possiamo permetterci nuovi giacimenti di petrolio e gas se vogliamo limitare l’aumento della temperatura globale entro la soglia di 1,5°C”.


Partendo da questi presupposti, ReCommon insieme a Greenpeace Italia  lo scorso 9 maggio, insieme a 12 cittadine e cittadini, avevano notificato a Eni un atto di citazione davanti al Tribunale di Roma per l’apertura di una causa civile per i danni subiti e quelli futuri derivanti dai cambiamenti climatici, a cui Eni, secondo le due ong, ha contribuito con la sua condotta continuando a investire nei combustibili fossili, pur essendo consapevolealmeno dagli anni '70, dell'impatto negativo sul clima e sulla salute di queste fonti energetiche. Le associazioni ambientaliste lo hanno ribadito anche lo scorso dicembre con il report Emissioni di oggi, morti di domani che documenta la responsabilità dell’azienda sulla crisi climatica in corso, accuse che Eni ha ritenuto lesive per la sua reputazione minacciando una causa risarcitoria e proponendo una mediazione rispedita al mittente dalle ong. Lo studio, che ha utilizzando la metodologia "Mortality Cost of Carbon", sviluppata dal ricercatore statunitense R. Daniel Bressler e pubblicata su Nature Communications nel 2021, stima che “Le emissioni di gas serra autodichiarate nel 2022 delle nove principali compagnie petrolifere e del gas europee Shell, TotalEnergies, BP, Equinor, ENI, Repsol, OMV, Orlen e Wintershall Dea potrebbero causare collettivamente un totale stimato di 360 mila morti premature correlate alle variazioni di temperatura, ovvero causate da calore estremo o freddo intenso, entro la fine del secolo”. Per Greenpeace il lancio della prima climate litigation italiana contro una società privata, la cui udienza inaugurale si è tenuta lo scorso 16 febbraio, sebbene ignorata dai principali media italiani che dipendono finanziariamente dalle inserzioni pubblicitarie di Eni, "Ha avuto una vasta eco sui media internazionali, spingendo Eni a reagire nei confronti delle due associazioni ambientaliste con un evidente intento intimidatorio”. Attualmente oltre a Eni a livello globale anche altre compagnie petrolifere e del gas (ad esempio TotalEnergies contro Greenpeace France o Shell contro Greenpeace Uk e Greenpeace International) stanno cercando, attraverso intimidazioni legali e ingenti richieste finanziarie, di fermare il lavoro di denuncia delle organizzazioni ambientaliste sulla drammatica impronta ecologica che queste compagnie hanno sul clima del pianeta.


Eppure, se nei tribunali viene tutelata l'immagine verde venduta a suon di pubblicità e sponsorizzazioni, fuori dai tribunali e fuori dagli slogan, Eni non si nasconde e il 7 marzo ha annunciato con entusiasmo una maxi scoperta di combustibili fossili al largo della Costa d'Avorio. Il pozzo denominata “Calao”, a circa 45 chilometri dalla costa e ad una profondità di 5.000 metri, contiene grandi quantità di petrolio e gas liquido e potrebbe produrre tra 1 miliardo e 1.5 miliardi di barili di olio equivalente. Una scoperta in netto contrasto con delle scelte industriali più responsabili e lungimiranti, necessarie a contrastare la crisi climatica in corso, visto che la chiave di volta della transizione (e della sicurezza) energetica non passa dal fossile, ma dallo sviluppo delle energie rinnovabili, chiamate a triplicare a livello mondiale la loro potenza installata già entro il 2030, come peraltro stabilito nel corso dell'ultima Cop28 lo scorso dicembre.


Alessandro Graziadei

sabato 23 marzo 2024

L’acqua è un diritto umano. La plastica no!

 

Finalmente il 23 gennaio, nell’ambito della direttiva Unione europea sull’acqua potabile, la Commissione europea ha adottato le tanto attese nuove norme minime in materia di igiene per i materiali e i prodotti che entrano in contatto con l’acqua potabile. Le nuove norme si applicheranno a partire dal 2027 ai nuovi impianti e prodotti per l’estrazione, il trattamento, lo stoccaggio o la distribuzione dell’acqua o per lavori di riparazione di tubature, valvole, pompe, contatori dell’acqua, raccordi e rubinetti. I materiali e i prodotti conformi alle nuove norme dell’Unione riceveranno una dichiarazione di conformità e una marcatura specifica, così da poter essere commerciati in tutta l’Unione europea senza restrizioni nazionali legate a possibili preoccupazioni per la salute pubblica o per l’ambienteL’acqua da bere sarà così più sicura, ad esempio impedendo la crescita microbica e riducendo il rischio di lisciviazione di sostanze nocive. Per il commissario all’Ambiente, Virginijus Sinkevičius “L’acqua potabile pulita è un diritto umano” e “Le nuove norme rigorose in materia di protezione della salute e dell’ambiente che proponiamo oggi garantiranno che i materiali e i prodotti a contatto con l’acqua siano sempre più privi di sostanze tossiche. La riduzione della contaminazione è un elemento chiave della resilienza idrica e della resilienza dell’intero ecosistema”. 


Nonostante la qualità dell’acqua del rubinetto in Italia sia tra le migliori d’Europa, ogni giorno in Italia utilizziamo 30 milioni di bottiglie di plastica e 7 milioni di vetro, con il risultato che in un anno quasi 13,5 miliardi di bottiglie diventano rifiuti da gestire. Oggi l’impatto ambientale dell’acqua in bottiglia e della sue filiera è fino a 3.500 volte maggiore rispetto a quello dell’acqua del rubinetto, eppure gli italiani sono primi in Europa e secondi al mondo per consumo di acqua in bottiglia, nonostante il 96,3% degli italiani dichiari di adottare “sempre o talvolta” comportamenti sostenibili. In realtà meno di un terzo (il 29,5%) consuma con regolarità acqua del rubinetto, una tendenza da cambiare al più presto per un approccio più ecologico all’acqua potabile. Non solo. Negli ultimi anni è cresciuta la preoccupazione per le microplastiche, ormai presenti praticamente ovunque sulla Terra, dal ghiaccio polare al suolo, all’acqua del rubinetto, all’aria, al cibo e all’acqua in bottiglia, con potenziali effetti sconosciuti sulla salute nostra e quella dell'ecosistema. Lo studio “Rapid single-particle chemical imaging of nanoplastics by SRS microscopy”, pubblicato a gennaio su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) da un team di ricercatori della Columbia University e della Rutgers University, che si è concentrato sulle nanoplastiche, frutto dell’ulteriore degradazione delle microplastiche, per la prima volta ha contato e identificato queste minuscole particelle anche nell’acqua in bottiglia. 


Non sono poche. I ricercatori hanno scoperto che “In media un litro conteneva circa 240.000 frammenti di plastica rilevabili, da 10 a 100 volte più grandi delle stime precedenti, basate principalmente su dimensioni più grandi”. Le nanoplastiche sono così piccole che, a differenza delle microplastiche, possono passare attraverso l’intestino e i polmoni direttamente nel flusso sanguigno e viaggiare da lì agli organi tra cui cuore e cervello. Possono invadere le singole cellule e attraversare la placenta fino ai corpi dei bambini non ancora nati con effetti ancora sconosciuti su un’ampia varietà di sistemi biologici. Per  Beizhan Yan chimico ambientale del Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University che ha partecipato alla ricerca, “Prima questa era solo una zona oscura, inesplorata. Gli studi sulla tossicità cercavano semplicemente di indovinare cosa c’è lì dentro. Questo studio apre una finestra in cui possiamo guardare in un mondo che prima non ci era stato esposto”. I ricercatori hanno testato tre famose marche di acqua in bottiglia vendute negli Stati Uniti, analizzando le particelle di plastica fino a soli 100 nanometri di dimensione e hanno individuato “Da 110.000 a 370.000 frammenti di plastica in ogni litro, il 90% dei quali erano nanoplastiche, il resto erano microplastiche”. Tra queste una delle nanoplastiche più comuni era il polietilene tereftalato o PET, cosa che non sorprende, visto che è di PET che sono fatte molte bottiglie d’acqua, ma nel nuovo studio il PET è stato superato in numero di nanoparticelle dal poliammide, un tipo di nylon che probabilmente deriva dai filtri di plastica utilizzati proprio per “purificare” l’acqua prima che venga imbottigliata. Altre plastiche comuni trovate dai ricercatori come il polistirene, il polivinilcloruro e il polimetilmetacrilato sono tutte utilizzate in vari processi industriali. I tipi di plastica cercati dai ricercatori americani rappresentavano però solo il 10% circa di tutte le nanoparticelle trovate nei campioni e gli scienziati non hanno ancora idea di cosa sia e da dove provenga il resto, ma se fossero tutte nanoplastiche, significherebbe che potrebbero essere decine di milioni per litro. Ora il team prevede di esaminare anche l’acqua del rubinetto, che ha dimostrato di contenere microplastiche, sebbene in quantità molto inferiore a quella in bottiglia. 


Oggi le microplastiche sono, di fatto, ovunque, ma è molto difficile quantificare la presenza di questo inquinante generato dalle attività umane e impossibile da rimuovere completamente tanto da diventare un crescente problema ambientale anche nelle acque interne italianeLegambiente, partner del progetto europeo LIFE Blue Lakes, la scorsa estate ha trovato micropalstiche nel 98% dei campioni raccolti nei laghi di Bracciano, Trasimeno e Piediluco. “Principalmente sono stati trovati frammenti di polietilene, che dalle caratterizzazioni chimico-fisiche sono risultati riconducibili alle vecchie buste di plastica, fuorilegge da diversi anni, ma che ancora galleggiano nelle nostre acque”. Le microplastiche sono state trovate e analizzate anche in tre impianti di potabilizzazione e due di depurazione sui laghi di Garda e Castreccioni, e ne è venuto fuori che “Viene trattenuto dal 30 al 90% di microplastiche, costituite principalmente da frammenti e fibre in poliestere e polipropilene (usato per l’abbigliamento tecnico e sportivo). Ma se si considera che un solo lavaggio in lavatrice può rilasciare fino a un milione di microfibre, capirne il destino può avere un impatto considerevole sulla qualità delle acque, sull’ambiente e sulla salute”. Dati preoccupanti, che provengono da due anni di monitoraggi del progetto LIFE Blue Lakes per definire protocolli di campionamento ed analisi delle microplastiche nei laghi e negli impianti di potabilizzazione e di depurazione delle acque reflue, utilizzati anche per elaborare quelle novità normative europee che due mesi fa hanno ridefinito lo stato di salute delle acque non solo interne, ma anche di quelle destinate al consumo umano.


Alessandro Graziadei

venerdì 22 marzo 2024

Un camper nei conflitti: i popoli nativi dell'isola di Sakhalin

Un camper nei conflitti è un podcast settimanale realizzato con una collaborazione di Associazione culturale inPrimisAtlante delle guerre e dei conflitti del Mondo e UnimondoCurato da Francesco Zambelli si pone l’idea di raccontare cosa accade nel mondo, con approfondimenti dedicati alle notizie di esteri che spesso sono trascurate nei grandi media internazionali. 


Oggi con Alessandro Graziadei il nostro camper virtuale arriva fino a Sakhalin, un'isola russa di 948 chilometri quadrati nell'Oceano Pacifico. Un avamposto russo nell’Asia più orientale, popolata da popoli nativi come i Nivkhi, gli Oroni, i Nanaitsy, gli Oroč e gli Evenki. Segnalazioni poi da quanto accade in Turchia e al confine tra India e Cina.


A seguire, la rubrica di Amedeo Rossi dedicata alla Palestina.


Ascolta qui il podcast di oggi: https://inprimis.today/notiziari/2024-03-21

sabato 16 marzo 2024

L'autosviluppo delle comunità: il vero antidoto allo sfruttamento

 

Le disuguaglianze globali sono sempre più ampie e rappresentano uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile e alla lotta contro la povertà. Negli ultimi anni in molti Paesi le disuguaglianze sono aumentate limitando la possibilità di alcuni settori della società di partecipare alla vita sociale, culturale, politica ed economica. L’Obiettivo 10 dell'Agenda 2030 è incentrato sulla riduzione delle disuguaglianze all’interno degli Stati e tra gli Stati stessi ed è uno degli scopi del Gruppo Volontariato Trentino (GTV) che ormai da 25 anni opera nell'ambito della cooperazione internazionale e dell'educazione alla cittadinanza globale in alcune comunità del Sud Est Asiatico con particolare attenzione ai diritti dei soggetti più vulnerabili come bambini, donne e minoranze. Ne abbiamo parlato con Benedetta Massignan, coordinatrice in Italia delle attività del GTV.


Ciao Benedetta e grazie per il tempo che avete deciso di dedicarci. Ci racconti quando è nato il GTV e perché?


GTV è nato nel 1999, inizialmente per sostenere gli ospedali nel nord del Vietnam, in un paese e in un contesto post bellico dove la qualità della vita e dei servizi erano molto basici. Fu in particolare il dott. Dino Pedrotti, storico neonatologo trentino, che, assieme al gruppo di ANT - Amici della Neonatologia Trentina, accolse le richieste di supporto di un ospedale vietnamita: nacquero i primi progetti che portavano materiali e formazione per i reparti di pediatria e neonatologia, grazie a specifiche raccolte fondi e missioni di infermiere e medici. Dopo poco, visti i tantissimi bisogni di quel paese anche fuori dagli ospedali, ANT decise di dar vita a una nuova associazione, GTV appunto, che si occupasse anche di sviluppo di comunità e lotta alla povertà nelle aree più svantaggiate del Vietnam.


Qual è la vostra mission, i vostri valori e quali sono oggi i vostri principali ambiti di intervento?


GTV è un’Organizzazione di Volontariato che si occupa di Cooperazione Internazionale

La nostra Mission è “Costruire un ponte tra Occidente e Oriente verso un nuovo domani”. Si intuisce che GTV vuole collaborare tra paesi, portando esperienze, professionalità e solidarietà al di là dei confini italiani. I nostri valori sono Relazione, con e tra le persone al centro dei progetti; Responsabilità, verso le risorse, i donatori ed i contesti dove lavoriamo; Rispetto, per il tempo che viviamo; Democrazia interna che dà valore al gruppo.

Questi mission e valori vengono messi in pratica in azioni di varia natura, secondo un approccio di “cooperazione di comunità”, ovvero lavorando per molti anni negli stessi luoghi, per cercare di rispondere ad esigenze diverse di sviluppo della popolazione locale. I nostri progetti spaziano dal sostegno alle attività agricole di donne e famiglie, al sostegno alle scuole con materiali e infrastrutture (anche con il programma di Sostegno a Distanza), a progetti di lotta alla malnutrizione e accesso all'acqua e all’igiene. Attualmente operiamo nel Distretto di Xin Man, in Vietnam, nella provincia di Kampong Chhnang in Cambogia e nell’isola di Atauro in Timor Est.

Il “ponte tra Occidente e Oriente” della nostra mission si concretizza poi anche con i viaggi solidali che promuoviamo ogni anno.


Tra le vostre attività ci sono, appunto, anche i viaggi solidali in Vietnam. Dopo la lunga pausa a causa del Covid-19 nel 2023 sono finalmente ripartiti. In che modo il turismo responsabile è una forma di sviluppo? 


I viaggi per GTV sono una modalità concreta per far conoscere alle persone italiane, soprattutto trentine, le attività e l’impegno della nostra associazione, portando i viaggiatori nelle comunità più remote del nord del Vietnam dove operiamo e facendo vivere loro un’esperienza unica di conoscenza e relazione con popolazioni lontanissime da noi, sia geograficamente che come stile di vita. Un modo insomma per uscire dalla propria zona di comfort e riflettere sulle disuguaglianze internazionali e su quelli che sono i diritti umani.

Le attività turistiche sono però anche un mezzo concreto per sostenere lo sviluppo economico di queste comunità svantaggiate: i gruppi di viaggiatori accompagnati da GTV spendono diversi giorni nelle “homestay”, case locali dedite all’accoglienza dei viaggiatori, dove il cibo e i servizi sono molto essenziali, ma diventano una fonte di reddito fondamentale per famiglie che si occupano, altrimenti, di sola agricoltura di sussistenza. 

Oltre agli alloggi, anche i fondi portati dai viaggiatori per i pasti, i trasporti e le guide locali mettono in moto un’economia quanto più possibile solidale, tenendo fissi i concetti di sostenibilità anche ambientale e sociale. Le comunità locali sono così le protagoniste dello sviluppo turistico del loro distretto.


Questo tipo di viaggio lo riproporrete anche nel 2024 e se sì sapete già con quale itinerario?


Sì, anche quest’anno proporremo un viaggio ad ottobre, grazie alla collaborazione con l’agenzia Viaggigiovani.it. Il gruppo avrà la possibilità di visitare Xin Man, il distretto dove opera GTV, ma anche la capitale Hanoi, la bellissima Baia di Halong e poi, nel sud del paese, il delta del Mekong e la città di Ho Chi Minh City.


Avete da poco concluso il progetto POEMA, con corsi di formazione e la creazione di biblioteche. Ci raccontate cosa sono e quale comunità interessa?


POEMA - Project for Opposing Early MArriages, è un progetto che mira a creare formazione e sensibilizzazione sul tema dei matrimoni precoci, una vera ingiustizia sociale che ancora oggi spesso vediamo accadere nel Distretto di Xin Man dove operiamo.

Dopo aver seguito la storia di due ragazze sostenute con il programma di Sostegno a Distanza che a soli 15 anni hanno lasciato la scuola per andare a vivere autonomamente e diventare madri, GTV ha voluto dedicare un progetto specifico alla lotta ai matrimoni precoci: è nato così nel 2023 questo progetto. Nonostante nel 2014 il Vietnam abbia dichiarato ufficialmente illeciti i matrimoni per uomini minori di 20 anni e per donne minori di 18 anni, quasi il 15% delle giovani donne vietnamite ha avviato un’unione fuori dalla famiglia prima dei 18 anni; con numeri molto inferiori, questo accade anche per gli uomini. I matrimoni precoci in Vietnam avvengono soprattutto nelle regioni montuose del nord e tra le etnie minoritarie, proprio dove opera GTV: oltre la metà delle donne H'mong e quasi un quarto delle donne Tay, Thai, Muong e Nung si sposano prima dei 18 anni. Le cause sono la povertà economica, le scarse opportunità di carriera, l’isolamento delle etnie del nord. Gli effetti implicano invece l’impossibilità per i giovani di concludere gli studi, cercare la propria strada e cercare di cambiare il destino di povertà che hanno vissuto in famiglia. 

Per GTV era quindi importante provare a lasciare un segno su questi temi. Nei 12 mesi di progetto abbiamo creato opportunità di formazione e riflessione per studenti, insegnanti e comunità sui temi dei diritti dell’infanzia, legge di famiglia, parità di genere, educazione sessuale e effetti dei matrimoni precoci e consanguinei. Abbiamo anche sostenuto le famiglie più povere, i cui figli/e sono più a rischio di abbandonare la scuola, con sostegno al reddito, materiali scolastici e incontri personalizzati.


Il GTV considera l'autosviluppo delle comunità il vero antidoto allo sfruttamento. In che modo i vostri progetti lo favoriscono? 


Soprattutto in Vietnam stiamo vedendo come lo sviluppo stia avvenendo in maniera rapida e spesso non in linea con i principi di sostenibilità. Grandi marchi occidentali sfruttano la manodopera locale con una grande sperequazione nella distribuzione della ricchezza prodotta: spesso donne e ragazze/i molto giovani che lasciano le proprie famiglie nelle campagne per lavorare a cottimo in fabbriche che non garantiscono loro i più diritti basici e li fanno entrare a volte in fenomeni di schiavitù moderna. Ci sono poi storie di tratta di esseri umani e di povertà urbana che spesso interessano proprio persone povere provenienti dalle campagne, dove non hanno via d’uscita dalla spirale di povertà in cui sono inserite da generazioni. Nei villaggi dove operiamo incontriamo spesso figli/e minori lasciati in cura ai nonni anziani, proprio perché per molti mesi consecutivi i genitori lavorano lontano cercando di migliorare la propria economia; spesso perdiamo anche le tracce di adolescenti che lasciano la scuola per iniziare a lavorare in zone industriali molto lontane e senza una rete di sicurezza.

Seguire il concetto di “autosviluppo” delle comunità dove operiamo per GTV significa cercare di stare a fianco di queste famiglie, raccoglierne le storie e i bisogni, riflessione comune sui possibili interventi da compiere, con l’obiettivo di migliorare le loro condizioni di vita e lavoro nelle zone rurali dove storicamente vivono ed evitare la caduta in processi di sfruttamento come quelli descritti sopra. 


Quali ricadute ha sulla comunità trentina il vostro lavoro?


Oltre ai progetti all’estero, GTV pone molta energia e attenzione alle azioni di Educazione alla Cittadinanza Globale: ogni anno entriamo in moltissime classi, dalle scuole materne alle scuole superiori, per far riflettere studenti e studentesse sulle disuguaglianze che, enormi, esistono ancora e sempre di più nel nostro pianeta, sui diritti umani e sugli obiettivi dell’Agenda 2030. Oltre ai percorsi scuola, promuoviamo eventi per la cittadinanza, non solo di raccolta fondi, ma anche di discussione e sensibilizzazione.

In particolare, in questo momento GTV partecipa alla “campagna 070” (www.campagna070.it), per sensibilizzare la cittadinanza e le scuole sugli impegni che anche l’Italia ha siglato a livello internazionale, ovvero sostenere e promuovere la cooperazione allo sviluppo destinandovi almeno lo 0,70 della propria ricchezza nazionale. Andiamo così nelle classi, assieme ad altre associazioni partner, per far riflettere sulle motivazioni che ci portano a continuare a fare cooperazione internazionale, in un quadro desolante di sfruttamento, povertà e cambiamenti climatici.


GTV lavora da sempre in sinergia con altre organizzazioni ed associazioni della società civile, sia italiana che asiatica. Quali sono i vostri principali partner nelle comunità nelle quali operate e qual è il loro ruolo?


In Vietnam, dove abbiamo una sede ufficiale e due collaboratori, lavoriamo sempre in stretto contatto con le autorità locali dei villaggi e dei distretti in cui si svolgono le attività. Il Vietnam è un paese molto istituzionalizzato e gerarchico, serve una grande collaborazione con le autorità amministrative locali che devono dare il via libera ufficiale ad ogni azione prima del suo inizio. Questi funzionari appoggiano molto i nostri interventi, rendendosi conto dell’importanza di migliorare la condizione di vita, di lavoro e di istruzione delle loro comunità. Lavoriamo inoltre assieme alle scuole, al corpo docente e al Dipartimento di istruzione, e all’Unione delle Donne, l’ente che mira al miglioramento della condizione femminile in ogni villaggio, essendo una fitta rete presente con struttura piramidale su tutto il territorio nazionale. Infine, una grande ricchezza per GTV in Vietnam è la partnership con associazioni no profit e reti di volontariato nazionale: ogni anno una ventina di giovani studenti universitari vietnamiti partecipa alle attività del nostro programma di Sostegno a Distanza, promuovendo giochi e laboratori educativi ai bambini/e sostenuti/e.

In Cambogia e Timor Est, dove abbiamo in corso dei progetti molto più piccoli, collaboriamo invece con dei partner locali di cui ci fidiamo, che andiamo a visitare e con cui manteniamo costanti rapporti e scambi di informazioni.


Ogni anno svolgi una missione di monitoraggio di progetti e di  visita alle comunità che ospitano i vostri progetti. Come hai trovato recentemente la situazione e quali sono i principali progetti che avete in cantiere per questo 2024?


Per poter svolgere il mio lavoro di coordinamento e riportare ai volontari di Trento informazioni chiare e aggiornate è fondamentale incontrare di persona i bambini, le famiglie e le comunità beneficiarie dei progetti GTV. In generale, mettersi a confronto con la povertà più estrema non è mai facile. Si torna a casa sempre con una sensazione di non fare abbastanza, soprattutto di non far capire abbastanza a chi ci vive vicino quanto le disuguaglianze internazionali sono profonde e come impattano sulla vita quotidiana, sulle scelte di vita e sui sogni di minori e adulti che incontriamo. Si tende a rimettere in discussione scelte e stile di vita quotidiani, troppo spesso legate dettate da un consumismo sfrenato.

Nel corso del 2023 ho visitato il Distretto di Xin Man, incontrando i 104 bambini sostenuti a distanza, le scuole e le autorità locali: è stato questa un’occasione per progettare le attività che stanno iniziando in questi mesi. Nel 2024 continueremo infatti la nostra mission di supporto a questo Distretto con un grande progetto di lotta alla malnutrizione (che comprende la creazione di un acquedotto per le coltivazioni di riso e ortaggi, creazione di orti scolastici, corsi di potenziamento delle tecniche agricole e zootecniche per donne, corsi sulla corretta nutrizione e distribuzione di input agricoli), con un progetto di accesso all’acqua potabile per due villaggi (con l’installazione di filtri per la depurazione dell’acqua nelle case e nelle scuole) e con la continuazione del programma di Sostegno a Distanza.

Nel 2023 ho però visitato anche la Provincia di Kampong Chhnang, in Cambogia, una zona colpita da una forte alluvione dove abbiamo concluso un progetto di supporto e ricostruzione per le case e per le scuole, anche con l’obiettivo di rendere la comunità più resiliente a questo tipo di fenomeni meteorologici estremi. In questa zona continueremo anche nel 2024 il supporto a due scuole “informali”, ovvero frequentate da bambini apolidi (di origine vietnamita) che non hanno accesso alle scuole pubbliche cambogiane, non essendo riconosciuti cittadini e non avendo neppure il certificato di nascita.

Infine, tra poco partirò per l’Isola di Atauro, a Timor Est, dove per la prima volta incontrerò la comunità che stiamo sostenendo con un progetto di accesso all’acqua (con la creazione di cisterne per la raccolta di acqua piovana, visti i cambiamenti climatici in corso e le sempre più prolungate siccità). Nel 2024 inizieremo qui anche un progetto di lotta alla diffusione della febbre dengue.


A giugno celebrerete i 25 anni di attività, un traguardo importante per un'associazione. Come pensate di festeggiare questo importante traguardo?


Abbiamo in programma un “grande” evento per celebrare questo importante traguardo: il 15 giugno 2024 promuoveremo infatti una tavola rotonda sul tema dello sviluppo del Vietnam nell’ultimo quarto di secolo, con la presenza dell’Ambasciata del Vietnam in Italia, con docenti dell’Università di Trento e figure istituzionali. Per la stessa occasione organizzeremo anche attività culturali (con la collaborazione del Centro Hoan Son e il Coro Altreterre) e diffonderemo, con una pubblicazione ed un video collettivo, quelli che sono stati i traguardi e l’impegno della nostra associazione in tutti questi anni.


Grazie mille per la disponibilità e per l'impegno che da 25 anni contribuisce allo sviluppo delle comunità dove operate oltre che di quella trentina!


Articolo di Alessandro Graziadei uscito anche su Abitarelaterra.org