Foto di Alessandro Graziadei |
Il Sahara Occidentale, già colonia spagnola, è l’ultima terra africana ancora in attesa della sua indipendenza. Il suo popolo, i Saharawi (letteralmente “gente del deserto”), vivono dal 1975 in parte come cittadini di uno stato illegalmente occupato dal Marocco, in parte come profughi nel deserto algerino. Da 35 anni aspettano un referendum per tornare nelle loro terre e da 10 anni una corsa attraversa le loro tende per cercare di dare voce ad un esilio. Con questo imperativo è nata 10 anni fa la Sahara Marathon, promossa dalla Segreteria di Stato del governo della Repubblica Araba Democratica Saharawi e organizzata con i saharawi da volontari di tutto il mondo.Il coordinamento e lo sviluppo della manifestazione sono gestite da due organizzazioni di solidarietà, l'Associazione El Ouali di Bologna e il Sahara Project Association di Madrid. La Sahara Marathon, che comprende oltre alla maratona classica le distanze di 21km, 10km, 5km e la corsa dei bambini, ha come obiettivi il finanziamento e lo sviluppo di progetti umanitari, ma vuole anche, attraverso lo sport, far conoscere e sensibilizzare il mondo su un conflitto che seppellisce le speranze di 200 mila saharawi nei campi profughi di Tindouf. Nella paralisi di una comunità internazionale che non è mai riuscita a sbloccare la situazione, la Sahara Marathon continua a farci correre per evitare che il popolo Saharawi venga dimenticato e per mettere un giorno il traguardo nei territori liberati del Western Sahara. L’ultima edizione è stata corsa il 22 febbraio 2010 con più di 800 partecipanti tra i quali ottantotto sono stati i corridori, i cooperatori o semplicemente i solidali camminatori italiani, ospitati per sette giorni nelle tende di questo popolo.
Mentre leggo in redazione il progetto Sahara Marathon 2010 mi insiste in testa la nota pubblicità delle scarpe spagnole che indosso: “nate per camminare, non per correre”. Pur amando marca e comodità iberica, ho sempre difeso l’idea che una scarpa debba essere pronta a correre, se le condizioni lo dovessero reclamare. Tre mesi dopo, a Fiumicino, rafforzo la mia idea e condivido il reclamo del popolo Saharawi, che ai più dice niente, a me ancora poco. Con scarpe da corsa ai piedi stringo un biglietto aereo destinazione Tindouf, nell’hamada algerino.
Verso le 14 abbandoniamo l’Italia per sdraiarci sopra un Mediterraneo di un blu uniforme, già preludio della geografia illimitata che è l’Africa. Dopo uno scalo che lascia addosso solo i 18 gradi di Algeri, il deserto attorno a Tinduf, alle tre di mattina, è buio pesto, nero perso in un mare di stelle. È necessario chiederci se sono le nostre, le stesse o hanno per eccesso di luce diversa fattura. L’Africa dei corridori si presenta così, come una notte accesa dal volto di una donna saharawi che ci accoglie consegnandoci al sonno. La mattina la stessa donna, con un piglio che abbatte qualsiasi pregiudizio di genere tra questi mussulmani sunniti, ci racconta in lingua hassanya un paesaggio di tende e sabbia che sfida con la sua vasta umanità il probabile ed il buon senso: è Smara, un campo profughi nel deserto algerino.
Sparso nel deserto il campo non conosce ressa, la tenda non ha porta, ma per entrare si faccia attenzione alla testa. Moltitudini di donne colorate e di bambini scalzi ma pettinati, meno di uomini ed anziani, occupano gli spazi lasciati vuoti dall’assenza di infrastrutture colmandoli di una vivace e spontanea umanità. La giornata comincia presto, alla luce dell’alba si riempie di scuole e mercati, per svuotarsi al tramonto. Il giorno dura il giorno. Qui nessuno ha energia elettrica. La luce del sole è la sola disponibile, conservata in pannelli solari e batterie d’auto illuminerà il necessario in assenza di luna. Qui nessuno ha acqua corrente. L’abito saharawi non declina per questo dignità e si presenta stirato e pulito, lasciando stupito il sudato e stropicciato corridore europeo pervaso dall’affanno termico e dalla debolezza di stomaco. Capre e pecore fanno tesoro dei poveri resti di un consumismo ancora lontano e mettono appunto personali sistemi di smaltimento dei rifiuti. Ogni superficie è ricoperta da un manto giallo che pare l’unico contributo del deserto alla vita degli uomini. Il campo delinea l’icona della nostra settimana d’Africa: nera la faccia e le mani, variopinti i vestiti, gialle le strade, le tende, le case, azzurro il cielo sempre basso sull’orizzonte mentre ci fa da cappello, in un paesaggio visivo dove tutto è novità, niente assomiglia a niente, eccetto la bottiglia di Coca Cola.
Deserto incantato per chi lo corre per un giorno, disincantato per chi lo cammina da 35 anni, ed è costretto da un muro di sabbia, mine e filo spinato lungo 2.700 km lontano dalla propria terra. Tra i muri del modo forse il meno conosciuto. Odioso ed odiato come gli altri. Basta una mattina e l’Africa completa quella lista di assoluti che è il biglietto da visita consegnato alla nostra moltitudine europea: dopo l’immensità della sua notte, del suo deserto, della sua temperatura, della sua ospitalità, l’ingombrante peso della sua sofferenza, conseguenza in questo caso di ferite Marocchine e paralisi da Nazioni Unite.
C’è stato un tempo in cui il popolo Saharawi viveva sotto l’ingombrante colone spagnolo nelle regioni di Saquia el Hamra e Rio de Oro in un territorio di 284 kmq stretto tra un Atlantico di pesce ed un Sahara di fosfati. L’indipendenza dalla Spagna del 1975 ha coinciso con la dipendenza dal re del Marocco e la pretesa di considerare il Sahara Occidentale una provincia del regno. Da allora questi 200 mila saharawi vivono nel deserto algerino chiedendo alla comunità internazionale di arrivare all’autodeterminazione tramite un referendum che il Marocco continua a negare, bloccando i numerosi tentativi di mediazione sul diritto di chi può o non può votare. Siamo qui soprattutto per questo. Non ci è chiesto solo di finanziare i progetti di cooperazione di un territorio che ormai da anni non conosce l’analfabetismo e le emergenze sanitarie. Correndo con questo popolo diamo voce alla causa della Repubblica Araba Saharawi Democratica (R.A.S.D.), uno dei membri dell’Unione Africana, uno stato apolide per gran parte del “primo” mondo.
Gli aiuti umanitari, qui in mezzo al deserto, garantiscono la sopravvivenza all’interno di una precisa organizzazione apparentemente non strutturata, dove noi siamo il dono aggiuntivo di una settimana e i proventi della maratona i progetti di tutto un anno. In realtà, ospiti nelle tende e nelle case di questa “gente del deserto” nata dall’incontro fra berberi del sanhanja e arabi yemeniti, scopriamo la generosità di chi ha poco e trasforma in dono, con un prodigio riservato alle latitudini meridionali, ciò che riceviamo e non ciò che lasciamo. L’idea che mi faccio mentre corro tra deserto, tende, sabbia, onduline e scolaresche urlanti è che quando le cose sono così poche il “mio” e il “tuo” diventano concetti vaghi e sempre elastici davanti alle necessità. Oltre il traguardo di una gara che è ormai europea quanto saharawi, per partecipazione ed organizzazione, esistono scuole e ospedali gratuiti e garantiti, penne mai troppe e medicine mai abbastanza. Esistono orti che estraggono con pompe solari poche gocce d’acqua da falde scarse e salate, centri ricreativi e di educazione allo sport, biblioteche e laboratori di ceramica, fabbriche di medaglie con materiali di riciclo e fatiscenti cisterne per l’acqua, un centro per l’inserimento sociale di ragazzi diversamente abili e il suo dottore, tutto in un apparentemente casuale intreccio di cooperazione ed arte del fai da te indifferente al dinaro algerino.
Noi corridori siamo passati di qua, ci siamo fermati poco, ci sembra di aver capito tanto. Abbiamo guardato, fotografato, domandato e provato ad ascoltare tutti, anche chi da anni torna per legami affettivi che ormai vanno oltre la cooperazione. Eppure, la situazione di questo popolo mi va stretta e da europeo non rinuncio ad un erroneo quanto affrettato tentativo di giudizio. Sbaglio. Mentre aggiungo come addendi il difetto coloniale, l’indifferenza dei media, il vecchio paternalismo, la nuova cooperazione, la lunga corsa, il marocchino “cattivo” e il saharawi “buono”, lentamente mi arrendo. Il mio compito non è l’addizione africana, ma raccontare questa storia, quella di aver avuto la fortuna di accorgermi che anche in un campo profughi ci sono sorrisi e volontà più forti di ciò che declino come statico ed assurdo. Non è superficialità, neppure forza della disperazione o fatalismo quella di questo popolo, è un’attesa diversa dalla nostra, diversa dal destino, è un segreto che contempla sofferenza, ma che il mio eccesso di volontà e fretta non schiude. Ho letto su un libro qualche riga di mano africana, diceva più o meno così: “la pazienza non mi interessa in quanto virtù in sé, ma perché è l’unica madre possibile della speranza”. È forse per questo che io ricordo il volto e il tempo del primo maratoneta e molti saharawi ricorderanno il volto e non il tempo dell’ultimo?
Mentre un aereo mi riporta a casa, ripenso alla corsa di questo popolo paziente. Una corsa di civiltà, al momento in vantaggio sull’esasperazione e sull’uso strumentale e fanatico della religione. Mi chiedo se le nuove generazioni conserveranno la pazienza e la speranza di questo popolo e quella di chi come Aminatu Haidar e altri attivisti saharawi considera ancora i diritti umani, di tutti, l’unica vera lenta corsa verso l’autodeterminazione.
Alessandro Graziadei - Algeria, 2010
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