sabato 25 dicembre 2021

La plastica e le alghe “aliene”

 

Nel mondo ci sono sei continenti. Il sesto è un’enorme discarica di plastica che galleggia nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Formatasi negli anni grazie alle correnti, “l’Isola dei rifiuti”, meglio conosciuta come “Pacific Trash Vortex”, è un disastro di decine di chilometri quadrati avvistata per la prima volta  nel 1997 da Charles Moore, navigatore, ambientalista e fondatore dell'Algalita Marine Research Foundation. La situazione dagli anni ’70 ad oggi non è migliorata, e oggi la plastica è un inquinante sempre più presente e persistente negli oceani a causa della sua pessima gestione. Secondo l’Ocean Conservancy dei circa 275 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno dalle 192 nazioni che si affacciano sul mare, una media di 8 milioni di tonnellate finisca annualmente negli oceani: “è come se ogni minuto un camion della spazzatura si recasse in spiaggia e scaricasse il proprio contenuto nel mare”. Entro il 2025 quindi i nostri oceani potrebbero contenere una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesci e se non si migliorerà lo smaltimento di questi rifiuti con sistemi di riciclo più efficienti, “la quantità di plastica nei nostri mari potrebbe aumentare di dieci volte entro il 2025”.


La plastica, però, non produce solo inquinamento, ma altera l’equilibrio ecosistemico del mare, entrando nella catena alimentare, uccidendo la sua fauna, e influenzando anche la biogeografia delle alghe marine. Secondo il nuovo studio “Emergence of a neopelagic community through the establishment of coastal species on the high seas”, pubblicato questo mese su Nature Communications da un team di ricercatori statunitensi e canadesi, “Le piante e gli animali costieri hanno trovato un nuovo modo di sopravvivere in mare aperto, colonizzando l’inquinamento da plastica” e non sono poche le specie costiere che adesso crescono anche nella spazzatura che galleggia in mare a centinaia di miglia al largo delle coste. Detriti galleggianti come reti, boe e bottiglie vengono portati dalle correnti nel Pacific Trash Vortex, trascinando con sé organismi che solitamente vivono  in  habitat costieri. Per la principale autrice dello studio, Linsey Haram dello Smithsonian Environmental Research Center (SERC) “I problemi della plastica alla deriva vanno ben oltre la semplice ingestione e intrappolamento. La nuova biogeografia delle specie costiere permette di espandersi notevolmente oltre quel che in precedenza pensavamo fosse possibile, fondando così nuove comunità neopelagiche”.


Gli scienziati avevano iniziato a sospettare che le specie costiere potessero usare la plastica per sopravvivere in mare aperto per lunghi periodi dopo lo tsunami giapponese del 2011. Nel 2017 un team di ricercatori statunitensi pubblicò su Science lo studio “Tsunami-driven rafting: Transoceanic species dispersal and implications for marine biogeography” che dimostrava che quasi 300 specie avevano attraversato il Pacifico facendo rafting sui detriti dello tsunami nel corso di diversi anni. Adesso il team della Haram, grazie al contributo dell’ong Ocean Voyages Institute che raccoglie plastica galleggiante durante spedizioni in barca a vela, ha analizzato diversi campioni delle 103 tonnellate di plastica e di altri detriti raccolti nel 2020 proprio nel vortice subtropicale del Pacifico settentrionale, isolando le specie che li avevano colonizzati, e trovandone molte di costiere, come anemoni, idroidi e anfipodi (simili a gamberetti), che non solo erano sopravvissute, ma prosperavano sulla plastica marina. Per noi profani potrebbe sembrare una notizia non particolarmente interessante, ne tanto meno allarmante, ma per gli scienziati marini, l’esistenza stessa di questa comunità “new open ocean” è un vero e proprio cambiamento di paradigma. Secondo lo scienziato Greg Ruiz, che lavora al Marine Invasions Research dove ha condotto le ricerche il team della Haram, “Finora l’oceano aperto non era stato abitabile per gli organismi costieri. In parte a causa della limitazione dell’habitat – non c’era plastica lì in passato – e in parte, pensavamo, perché era un deserto alimentare”, ma adesso “La plastica sta fornendo l’habitat e  in qualche modo, gli organismi rafters stanno trovando cibo per sopravvivere”. Ruiz sottolinea che non è ancora chiaro come: “se si spostano negli hot spot di produttività esistenti nel vortice, o perché la plastica stessa agisce come una barriera corallina che attira più fonti di cibo”. Certo è che l’arrivo di nuove specie costiere competitrici potrebbe sconvolgere gli ecosistemi oceanici che sono rimasti indisturbati per millenni perché “Le specie costiere sono direttamente in competizione con questi rafters oceanici. Sono in competizione per lo spazio. Sono in competizione per le risorse. E queste interazioni sono ancora molto poco comprese”.


E poi c’è la minaccia delle specie invasive.  Vaste colonie di specie costiere che galleggiano in mare aperto per anni potrebbero invadere nuove coste ed estendersi in aree più remote e delicate, come le aree marine protette. Gli autori dello studio non sanno ancora quanto siano comuni queste comunità “neopelagiche”, se possono sostenersi da sole o se esistono anche al di fuori del vortice subtropicale del Pacifico settentrionale. Ma la dipendenza del mondo dalla plastica continua a crescere e gli scienziati stimano che entro il 2050 i rifiuti di plastica globali cumulativi e le loro colonie di alghe costiere potrebbero raggiungere oltre 25 miliardi di tonnellate. Per la Haram e il suo team i cambiamenti climatici potrebbero rendere questo processo più rapido e radicale: “Con tempeste più violente e più frequenti all’orizzonte, ci aspettiamo che ancora più plastica verrà spinta in mare. Le colonie di rafters costiere in alto mare probabilmente potranno solo crescere. Questo effetto collaterale a lungo trascurato dell’inquinamento da plastica potrebbe presto trasformare la vita nel mare e anche sulla terraferma”. Come non lo sappiamo, ma difficilmente sarà in meglio.


Alessandro Graziadei

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