domenica 10 agosto 2014

Gamberi e scampi = violazioni dei diritti umani, schiavismo e disastri ambientali

Negli ultimi anni la passione dei consumatori per gamberi e scampi è in costante aumento. Questi crostacei hanno conquistato quote di mercato sempre maggiori e sono tra i prodotti della pesca più richiesti, tanto da rappresentare da soli il 20% del mercato ittico internazionale. Provengono da acquacolture nel 60% dei casi e vengono allevati e pescati in zone tropicali per lo più asiatiche come Cina, Thailandia, Indonesia, India, Vietnam e Bangladesh. Quasi sempre però, che siano da allevamento o selvaggi, interi o sgusciati, la sostanza è sempre la stessa: in fatto di gamberi e scampi non esiste una scelta etica, né lontanamente sostenibile, visto che le maggiori aziende attive nel settore stanno solo ora compiendo i primi passi sulla strada della responsabilità sociale. Dietro questi piccoli crostacei si celano, infatti, violazioni dei diritti umani, schiavismo e disastri ambientali difficili da immaginare.
La notizia non è nuova, un’interessante inchiesta di AltroconsumoGamberi non vi mangiamo più” (.pdf) già nel 2013 aveva descritto un quadro inquietante: “Se i gamberetti selvaggi subiscono una pesca intensiva con reti a strascico che fanno strage di qualsiasi forma di vita marina (comprese le specie in via d’estinzione), gli allevamenti di gamberi sono ancora peggiori, perché causano la distruzione di interi ecosistemi legati alle foreste di mangrovie, che vengono annientate per far spazio ai bacini artificiali per l’acquacoltura”. Chi pensa che siano problemi lontani dal nostro quotidiano e che non abbiano nulla a che fare con la nostra salute dovrà ricredersi, dal momento che “negli allevamenti intensivi di gamberi tropicali si fa largo uso di sostanze chimiche, come disinfettanti, pesticidi e antibiotici (anche quelli proibiti in Europa). Questo per evitare che nelle vasche piene e zeppe di gamberi si propaghino infezioni”. Inoltre acque così inquinate e impoverite sono inservibili anche per i pescatori che non possono neanche convertirsi in agricoltori, poiché l’acqua salata proveniente dai bacini di allevamento causa la salinizzazione dei suoli, trasformando terreni arabili e produttivi in veri e propri deserti. 
Ma a rischio non è solo la nostra salute di consumatori e le economie famigliari asiatiche, ma soprattutto i diritti e la libertà di chi in questo settore ci lavora (si parla di circa 300 mila persone)! Una recente e dettagliata inchiesta de The Guardian durata sei mesi ha scoperto che l’industria dei gamberi thailandese, una delle più fiorenti e rinomate al mondo, vive grazie a immigrati senza tutele, che arrivano per lo più da paesi confinanti come Birmania e Cambogia. Si tratta di uomini comprati e venduti come animali e tenuti contro la loro volontà sui pescherecci Thailandesi per garantire ai supermercati occidentali la fornitura di scampi e gamberetti a basso costo che i consumatori richiedono. Parliamo di “Veri e propri schiavi costretti a lavorare per anni senza paga sotto la minaccia della violenza” visto che per il Guardian è così che vengono allevati e raccolti buona parte degli scampi e dei gamberetti che arrivano dall’Asia alle grandi catene americane ed europee.
Chi è riuscito a fuggire da queste prigioni sull’acqua ha raccontato storie terrificanti di botte, torture, esecuzioni. In generale si può dire che il 10% di questi “schiavi della pesca” ha detto di essere stato regolarmente picchiato a bordo dei pescherecci e oltre il 25% ha confermato di lavorare con orari insostenibili senza nessun momento di pausa. “Alcuni erano in mare da anni - ha riferito il Guardian - a molti venivano somministrate anfetamine perché non interrompessero il lavoro”. Alcuni migranti birmani e cambogiani hanno anche spiegato ai giornalisti come sono finiti in quelle condizioni, pagando degli intermediari perché li aiutassero a trovare lavoro in Thailandia in fattorie o uffici. Sono invece stati venduti ai comandanti delle navi, a volte per meno di 250 sterline. “Pensavo di morire - ha racconta Vuthy, monaco cambogiano venduto di nave in nave - mi hanno tenuto in catene, non mi davano nemmeno da mangiare. Ci vendono come animali, ma noi siamo esseri umani”. Altre vittime di questi traffici hanno detto di avere visto almeno venti schiavi venire uccisi, uno di essi è stato legato alla barca. “Ci picchiavano anche se lavoravamo duramente” ha raccontato un altro sopravvissuto.
I segnali di questo meccanismo della schiavitù nell’industria ittica thailandese erano arrivati da organizzazioni non governative e da un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), già nel 2013, che parlava apertamente di “gravi abusi” a bordo dei pescherecci Tailandesi e descrivendo “casi di violenza e lavori forzati”. Come se non bastasse, aveva ben evidenziato Altroconsumo nella sua attenta indagine, “Secondo i dati del Labour Rights Promotion Network (LPN) gran parte dei lavoratori di questo settore sono minori: il 19% ha meno di 15 anni, mentre un altro 22% è tra i 15 e 17 anni. Lavorano su pescherecci o in capannoni sporchi e malsani, esposti a sostanze chimiche aggressive e senza cure mediche in caso di necessità. Vivono, anzi sopravvivono, alla mercé di caporali che li brutalizzano e che, dopo aver requisito loro i documenti, li tengono in pugno. Sono costretti a sgusciare gamberetti anche per dodici ore al giorno”.
Il Guardian ha raccontato come le navi con gli schiavi raccolgano enormi quantità di “pesce spazzatura”, piccolo e non commestibile, che poi dopo essere stato trasformato in farina di pesce approda negli allevamenti per fungere da mangime per gamberetti e scampi.  L’inchiesta ha portato alla luce come la più grande azienda nella distribuzione di gamberetti, la Charoen Pokphand (CP) Foods, che fornisce catene come Aldi, Carrefour, Costco, Tesco e Walmart compra proprio questa farina di pesce per i suoi allevamenti. La CP Foods ha dovuto ammettere che gli schiavi sulle barche e negli stabilimenti di trasformazione sono una realtà negli ambienti dove si approvvigiona di scampi e gamberi. “Non siamo qui a difendere ciò che accade - ha detto Bob Miller, uno dei manager della CP Foods - sappiamo che ci sono problemi di questo tipo, ma non sappiamo quanto siano estese queste pratiche”. La multinazionale in ogni caso ha promesso azioni urgenti, come hanno fatto molti dei distributori. Davanti ad un Governo spesso connivente e recentemente sradicato da un colpo di stato, i marchi globali e i rivenditori possono fare tanto semplicemente facendo valere i loro standard etici sui fornitori. “Se le imprese si renderanno conto che i risultati di non conformità etica provocano una perdita di profitti sarà possibile registrare enormi cambiamenti positivi nella vita e nei diritti dei lavoratori migranti di questo settore” ha detto Lisa Rende Taylor di Anti-Slavery International.
Ma anche come consumatori non si può più fare finta di niente. “Scegliamo di non acquistare gamberetti e scampi che provengano dall’Asia e se non è possibile verificarne la provenienza, non acquistiamoli affatto” perché “se acquistiamo scampi e gamberetti provenienti dalla Thailandia, tanto più se sono sgusciati, compriamo qualcosa che è stato prodotto rendendo schiavi degli esseri umani”  ha detto Aidan McQuade, direttore di Anti-Slavery International. Una buona regola anche per chi non ha già dato retta al monito che arriva da un gruppo di ricercatori dello Stockholm International Water Institut un istituto svedese per il controllo delle risorse idriche mondiali: “Entro il 2050 tutti vegetariani, o il pianeta rischia di collassare per il consumo eccessivo di risorse” (anche di quelle ittiche, oltre che di quelle umane!).
Alessandro Graziadei

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