domenica 30 novembre 2014

Haiti: il paese capovolto

Verrebbe da chiedersi cosa è cambiato da quando nel 1997 lo spagnolo Miguel Angel Barroso e il peruviano Igor Reyes Ortiz pubblicavano per Feltrinelli un diario a quattro mani da quel gruppo di isole che formano le Antille, tra le quali c’è anche Haiti. I capitoli dedicati a quest’isola si intitolavano “Viaggio al centro delle tenebre” e “Nel cuore delle tenebre” e anche se certamente parziali e calati in un’atmosfera vudù piuttosto pervasiva, ci restituivano un quadro realistico del dramma sociale, culturale e politico di questo piccolo Paese che il 12 gennaio 2010 ha dovuto fare i conti anche con un terremoto che ha causato più di 200.000 vittime e circa 2,3 milioni di senza tetto. Così in un Paese fra i più poveri dell’America Latina, già provato da instabilità e insicurezza, il sisma ha aumentato le difficoltà del popolo haitiano e quasi 5 anni dopo, nonostante l’impegno nella ricostruzione del Paese da parte di centinaia di ong, ad Haiti migliaia di persone si trovano ancora in rifugi precari, l’assistenza sanitaria è insufficiente e migliaia sono le persone costrette a vivere al di sotto della soglia di povertà.

Oggi il tempo sembra essersi fermato. “Sarebbero oltre 170mila gli sfollati, 600mila gli haitiani che vivono in condizioni di insicurezza alimentare, mentre si registrano più di 50mila nuove infezioni di colera ogni anno” ha raccontato Riccardo Venturi, fotogiornalista dal 1988 che ad Haiti ci ha portato il cuore e l’obiettivo arrivando a Port-au-Prince quattro giorni dopo il terremoto in “un paese capovolto e in preda al caos”. “La città era completamente al buio, senza corrente elettrica, senz’acqua, senza più neanche le strade e, sbriciolata com’era, offriva il fianco inerme alle decine di saccheggiatori e delinquenti che hanno razziato e bruciato il poco rimasto. I corpi dei vivi erano mescolati a quelli dei morti, ovunque centinaia di cartelli improvvisati chiedevano aiuto, medicine e generi di primo soccorso. L’emergenza sanitaria era palese e il colera ha iniziato ad imperversare senza che si potesse fare nulla per arginarlo” ha raccontato Venturi, che ha deciso di partire così, su due piedi e senza un assignment, “ma con l’intima convinzione che fare il fotoreporter oggi, in un’epoca in cui tutto sembra già visibile e a portata di mano, significa offrire un servizio di mediazione culturale, traducendo atmosfere, sensazioni e urgenze in immagini”. 

Da questo primo impulso è nato il progetto di crowdfunding Haiti Aftermath “per documentare, monitorare e descrivere lo stato delle cose a cinque anni di distanza dalla catastrofe. Per riaprire quel sipario chiuso troppo in fretta e mantenere viva l’attenzione sulla vicenda della popolazione haitiana, sulle sue condizioni di vita e sui suoi bisogni”. La raccolta fondi, che mira a raccogliere 18.000 Euro, servirà a coprire le spese di reportage e la realizzazione di un libro fotografico la cui stampa e distribuzione sarà a cura della Casa Editrice Peliti Associati. “In tal modo potrò tornare a Port-au-Prince e raccontare le conseguenze che un evento catastrofico di tale portata ha avuto sulla vita quotidiana degli haitiani dai primi giorni dopo il terremoto fino all’attuale situazione, tuttora di emergenzaha spiegato Venturi.

Un lavoro importante per tenere accesa l’attenzione internazionale su una situazione tutt’altro che risolta (come spesso accade le crisi sono velocemente dimenticate). Secondo il Global Slavery Index da poco presentato dalla Walk Free Foundation, nel 2014 sono più di 38,5 milioni i “moderni schiavi” nel mondo e ad Haiti il 78% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno. Qui il sinonimo in lingua creola di schiavitù è “restavek”, così si chiamano i bambini dell’area rurale spediti a vivere in famiglie diverse dalla propria, con l’illusione di una vita migliore e di un minimo tasso di scolarizzazione. Speranze deluse da cronache che parlano di “emergenza abusi” sulle giovanissime vittime di questa moderna schiavitù. “I bambini restavek sono sfruttati per lavori domestici, trasporto di pacchi e materiale pesante, operazioni di cucina rese rischiose da inadeguatezza e pessime condizioni di igiene degli stabili haitiani. La stessa iscrizione alla scuola si rivela un miraggio. E se c’è la possibilità di frequentare le lezioni, gli abusi, anche sessuali, subiti in casa alzano a dismisura il tasso di insuccessi e bocciature” ha spiegato la Fondazione. I soggetti in stato di schiavitù ammontano così oggi a 237mila unità, senza contare il traffico di umani attivato con la vicina Repubblica Dominicana e l’esposizione alla malavita che inghiotte molti dei restavek espulsi dalle famiglie di “adozione”.

Eppure non tutto è “tenebra”. Sono decine i progetti che funzionano e il mese scorso la Croce Rossa Italiana (CRI) ha inaugurato a Port au Prince, il “Village Haitien Solferino”, un insediamento urbano di 53 case per altrettante famiglie nel quartiere di Croix de Bouquet. La progettazione e il finanziamento sono state a cura della CRI e della consorella Haitiana, che hanno impiegato maestranze esclusivamente locali. L’iniziativa ha lo scopo di sostenere la popolazione haitiana attraverso la fornitura di strutture abitative per i nuclei familiari finora ospitati in Italia grazie a un programma di inclusione sociale. “Il progetto - ha spiegato la CRI - prevede diverse opere con finalità articolate: la costruzione di un villaggio a beneficio delle famiglie ospitate in Italia nella fase post-terremoto e di altre ugualmente vulnerabili; la costituzione di un polo industriale per la creazione di posti di lavoro, indispensabili per reimpostare la vita delle famiglie; la costruzione di un centro nutrizionale a completamento del poliambulatorio già esistente; e infine la realizzazione di un centro di quartiere, costituito da una scuola, da una sala biblioteca, da una sala computer, da un centro culturale, da un anfiteatro e da campi sportivi, rivolti a oltre 1.500 ragazzi e bambini del quartiere”.  Un impegno costante quello della Croce Rossa Italiana che in questi anni non è mai venuto meno ed è stato possibile grazie al lavoro dei volontari e di tutti coloro che attraverso le donazioni hanno contribuito a far fronte a una delle più devastanti catastrofi degli ultimi anni.

Una speranza per Haiti che nonostante tutto sarà presente anche ad Expo Milano 2015 per cercare di valorizzare l’eredità storica dei nativi americani legata alla cultura dei cereali e dei tuberi che rappresentano la ricchezza dell’alimentazione e delle pratiche nutrizionali delle persone che oggi popolano il paese caraibico. Per Expo2015 “Haiti ha saputo coniugare la tradizione culturale con gli sforzi nel campo dell’innovazione che il Governo sta attuando per migliorare la qualità e aumentare la quantità della produzione di cereali e tuberi. Queste colture rappresentano, infatti, un prodotto fondamentale all’interno della dieta della popolazione mondiale e l’innovazione, in particolare, servirà a supplire ai bisogni alimentari crescenti”. Anche da Milano passerà quindi la voglia di riscatto del popolo haitiano e di persone come Jean Dominique (il celebre The Agronomist) che hanno dato la vita per combattere contro il “destino” di un Paese in perenne stato di emergenza.

Alessandro Graziadei

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