sabato 3 agosto 2019

PFAS: non esiste né un livello limite né un rimedio

Era il 3 ottobre del 2017 quando la Giunta regionale del Veneto deliberava quelli che definiva “I  nuovi limiti (i più restrittivi d’Europa) per la presenza di sostanze perfluoro-alchiliche (PFAS) nelle acque potabili” e stanziava più di un milione di euro da destinare agli enti acquedottistici per il potenziamento dei filtri nei rispettivi impianti regionali. Era un traguardo importante che tuttavia per l’Associazione medici per l’ambiente – Isde Italia, non è sufficiente. Per Isde Italia infatti “I valori limite proposti dalla Regione Veneto per le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) non sono, non possono e non devono essere considerati come protettivi per la salute umana. Per le PFAS, come per molte altre sostanze tossiche e cancerogene, non è ancora stato chiarito il livello minimo di concentrazione, nelle acque ad uso umano, che possa essere considerato “innocuo” in termini sanitari”. Un’evidenza scientifica che assume particolare rilievo per le fasce di popolazione in età pediatrica, in gravidanza o esposte cronicamente alle contaminazioni, soprattutto considerando le conseguenze del bioaccumulo e le inevitabili interazioni con altre sostanze inquinanti presenti nelle matrici ambientali, un aspetto troppo spesso volutamente dimenticato.

Per questo Isde Italia è tornata a ricordare che “Nel rispetto dei principi di precauzione e di prevenzione e indipendentemente dai limiti imposti dalla legge, la concentrazione di PFAS nelle acque dovrebbe tendere a zero. Questo obiettivo deve essere perseguito mettendo in atto tutte le azioni efficaci per garantire da subito acque salubri e pulite alle comunità esposte, ma anche a monte, nel rispetto del principio di prevenzione primaria, evitando in ogni modo (eventualmente anche con specifiche disposizioni legislative) la stessa produzione di queste sostanze tossiche per l’ambiente e per la salute umana”. Se per Isde Italia solo “Tali misure devono essere considerate le uniche in grado di ridurre il livello di rischio per la salute pubblica e di evitare un ulteriore aggravamento della già critica situazione esistente”, l’obiettivo “0 PFAS” è stato evocato anche lo scorso 25 giugno quando la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti ha ascoltato Alessandro Bratti, direttore generale dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che con alcuni colleghi scienziati ha fatto il punto sulla vicenda della contaminazione ambientale da sostanze perfluoroalchiliche  – Pfas.

In questa occasione i ricercatori dell’Ispra hanno ripercorso la storia dei Pfas, dalle prime produzioni in Italia nel 1965 alla presa di coscienza della loro presenza nei corpi idrici e della loro pericolosità a partire dal 2006, quando la loro concentrazione è apparsa fuori controllo soprattutto a causa degli sversamenti dell’industria cartaria, tessile, conciaria e del settore galvanico. Per Bratti “I Pfas sono sostanze stabili e persistenti, resistenti all’attacco fisico, chimico o biologico” e “al momento non ci sono metodi consolidati di trattamento di reflui contenenti Pfas, con il risultato che queste sostanze rimangono stabili nell’ambiente”.  Per i ricercatori dell’Ispra i risultati dello screening preliminare effettuato  nel 2018 sulla presenza dei composti Pfas nei corsi d’acqua e nelle falde del nostro Paese, contenuti nel rapporto “Indirizzi per la progettazione delle reti di monitoraggio delle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) nei corpi idrici superficiali e sotterranei”, hanno dato risultati non certo confortanti, tanto che “Dal 2019, a seguito del monitoraggio di questi composti, molti corsi d’acqua vedranno modificato in senso negativo il loro stato di qualità”.

Alla luce della situazione per Bratti “È fondamentale mettere in piedi un osservatorio sui Pfas e su tutte le sostanze chimiche emergenti, in modo da poter intercettare la loro presenza nell’ambiente tempestivamente. Accanto ai Pfas diffusi da più tempo, infatti, ci sono nuove sostanze perfluoroalchiliche come GenX e C6O4, per le quali al momento non c’è una metodologia analitica condivisa”. Come osservato anche da Isde Italia quasi un anno fa, per l’Ispra “Le soglie di qualità ambientale relativi alla concentrazione di Pfas nelle acque esistono solo per poche di queste sostanze e in alcuni casi risultano superate. Per quanto riguarda invece gli scarichi, al momento, non esistono limiti nazionali su cui possano basarsi le autorizzazioni”. Un vuoto normativo che sembra averci portato ad una situazione ambientale delicata che nessuno al momento sembra aver fretta di tamponare. Come mai? Per il presidente della Commissione Ecomafie Stefano Vignaroli, “I Pfas, per la loro elevata persistenza, sono ormai molto diffusi nell’ambiente e mettere in atto una bonifica non è semplice tecnicamente” e purtroppo neanche economicamente. Così la vicenda della contaminazione da Pfas per ora rimane “irrisolta” e mostra chiaramente come l’industria, anche quando crea prodotti utili come tessuti impermeabili e padelle antiaderenti, in nome del profitto sacrifica senza troppe remore il fronte ambientale e quello della salute. Gli organi di tutela ambientale, che sono pochi e con pochi fondi, non sempre riescono a denunciare i problemi in modo tempestivo e quando lo fanno, per una politica tutt’altro che attenta alla tutela ambientale, rimediare diventa difficile, quando non impossibile

Alessandro Graziadei

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