L’incontro con il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz, che dal 1986 segue gli eventi dell'area balcanica e danubiana tra corrispondenze e viaggi, è stata l’occasione per parlare di una reale e non solo narrativa comune “cittadinanza Euromediterranea” sullo sfondo della dissoluzione della ex Jugoslavia che Rumiz ha seguito come cronista.
Il pretesto è quello letterario, l’ultimo libro di Rumiz “La cotogna di Istambul”, che attorno alla storia d’amore che prende forma negli endacassillabi del testo svela gli infiniti incontri dell’autore con persone, luoghi e storie di un territorio balcanico - danubiano che parla di culture che si intrecciano e si contaminano, si rispettano e si odiano affascinando anche per la loro capacità di oltrepassare i confini geografici, scombinando le carte di identità solo presunte.
Non ha dubbi Rumiz a riguardo: “Io abito a Trieste, in una città plurale, nel punto di incontro tra centro Europa e Mediterraneo. Sono stato abituato fin da piccolo a ragionare in termini di diversità. L’identità non definisce nulla, perché noi siamo nomadi che appartengono a un luogo, a una terra che andiamo ad abitare, e non il contrario”.
Ed è questa ricerca di una “comune diversità” propria di un’area euromediterranea che il racconto di Rumiz insegue, grazie all’incontro reale dell’autore, alla fine della guerra dei Balcani, con una donna di Sarajevo interprete della canzone-presagio Le gialle cotogne di Istanbul. Un incontro che aiuta a capire la storia e le pluralità dei Balcani ed in particolare quella di Sarajevo, un luogo dove “Razze e religioni si combinano in modo speciale”.
Infatti, Sarajevo ha custodito le sue peculiarità e le sue diversità continuando a far coesistere “minareti e gonne corte, buon vino e sinagoghe, foreste austriache e un basso salmodiare bizantino” spiega il protagonista maschile Maximilian Altenberg. Un multiculturalismo dove le etnie e le tre grandi religioni monoteistiche coesistevano da sempre, una città dove, come dice la protagonista Maša Dizdarević “Si celebra la vittoria del luogo sulle stirpi”.
E al Rumiz giornalista, ancor prima che scrittore, sembrano essere queste le vere ragioni di quel “sanguinoso imbroglio” che è stato l’assedio della città: “la pioggia di bombe su Sarajevo, fu il risultato di una guerra etnica che aveva visto in questa città il suo naturale antidoto”. Un antidoto fatto di contaminazioni che affondano le loro radici nel 1492 quando gli ebrei scacciati da Isabella la Cattolica approdarono ovunque con i loro libri e la loro cultura, anche a Sarajevo, già terra d'asilo e tolleranza.
Forse anche per questo per Maša “Da nessuna parte puoi capire meglio il destino d’Europa”. “A chi ha orecchio buono, Sarajevo restituisce secoli di suoni - legge Rumiz dalle sue pagine -: il colpo di Gavrilo Princip contro l’arciduca Franceso Ferdinando, il tapum del cecchino, il rimbombo dei mortai, i cingoli della Wehrmacht, il crepitare dei libri dentro la biblioteca nazionale”. Secoli di suoni e di incontri che con il bombardamento della bibliotaca nazionale del 1992 sembravano morire insieme ai libri e ai manoscritti, bruciando con la storia e la cultura di una città che nella sua essenza rappresentava l'idea di un'Europa dalle radici plurali.
Ma il quadro che ognuno di noi può costruirsi senza aver partecipato, se non come spettatore, a quella guerra si colora nelle parole di Rumiz di un significato più concreto dove l’etnia spiega solo una faccia della medaglia. L’altra è ancora la voce di Maša a spiegarla ammonendo i ragazzi che frequentavano la sua scuola improvvisata “Guai se credete che qui c’entrino serbi e mussulmani. Chi ci bombarda sono i primitivi, quelli che ignorano il gusto del vivere e non sanno il sapore celestiale del caffé con lo zucchero in cristalli”. “Abbiamo - diceva - un modo solo di vincere la guerra: conservare le abitudini dei nostri antenati”.
Negli anni del ritorno della guerra in Europa, per Rumiz, Sarajevo “scopre le sue risorse, sviluppa relazioni, aguzza ingegni, ma soprattutto fa emergere chiaramente quella distinzione sopita dalla normalità tra buoni e cattivi”, dove i primi hanno di fatto contribuito a sconfiggere quotidianamente la guerra conservando la ricca memoria del loro passato.
Quella raccontata da Rumiz diventa così una storia intensa e vera che rende intuitivo rintracciare termini e sentimenti comuni anche ad una storia più ampia, come nel caso della malinconia che conquista il protagonista quando è lontano dalla città. Una saudade iberica la cui radice pare troppo simile a sevdah che in turco è la bile nera capace di generare nostalgia e innamoramento confluita nel misto di amore, assenza e malinconia presente nelle sevdalinke, le tristi canzoni balcaniche. Come se a Sarajevo “che poi non a caso vuol dire serraglio per le carovane, il viaggio finì, e le due parole si riconobbero pressochè identiche”.
Così, a fine serata diventa più facile rispondere all’incipit del libro che per voce del suo protagonista Max, alias Paolo Rumiz esordisce chiedendoci “Ma voi che ne sapete dell’amore”. Poco, ancora poco, ma certamente qualcosa in più, almeno sull’amore che ci può legare tutti ai Balcani in nome di una comune cittadinanza Euromediterranea, la stessa che spiega l’ultimo tragico assedio di una città, che solo poche settimane prima l’autore di queste righe, seduto a margine dell’ex “viale dei cecchini” nel cuore di Sarajevo stentava a decifrare.
Alessandro Graziadei
Nessun commento:
Posta un commento