Non è bastato il cammino della dittatura militare verso una ancor fragile e apparente democrazia, ne tantomeno l’attesa elezione al parlamento del Nobel 1991 per la Pace Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia e impegnata in questi giorni in una serie di incontri in Europa, per riportare alla pace il Myanmar dove resta alta la tensione nello Stato occidentale del Rakhine, teatro da giorni di un conflitto etnico-religioso fra buddisti e musulmani.
Le violenze nel Rakhine, uno snodo molto importante per il commercio perché punto di origine di un oleodotto e gasdotto costruito dalla Cina che porta energia fino allo Yunnan, sono scoppiate a fine maggio, quando una donna buddista è stata violentata e uccisa da tre uomini di fede mussulmana. Da quel momento i delicati rapporti tra la minoranza musulmana, circa 4% della popolazione locale, e la maggioranza buddista sono degenerati: il 3 giugno alcuni buddisti per hanno aggredito un gruppo di mussulmani che viaggiavano su un autobus sul quale si credeva fossero anche i tre autori dell’omicidio-stupro, mentre l’8 giugno gli islamici sono insorti ed hanno iniziato a protestare appiccando il fuoco ad abitazioni di cittadini buddisti nella cittadina di Maungdaw. Ora si è quasi perso il conto delle ritorsioni tra le due comunità.
Il Myanmar, composto da oltre 135 etnie, ha sempre avuto difficoltà a farle convivere ed eventi del genere sono accaduti anche in passato, ma allora la giunta militare che non aveva ancora avviato il lento processo di democratizzazione del paese, era molto attenta a non far trapelare la gravità di queste notizie. In particolare i musulmani Rohingya protagonisti degli scontri sono una comunità che in Birmania ha destato spesso preoccupazioni e problemi: il governo li considera immigrati clandestini del Bangladesh, anche se molte famiglie hanno vissuto per generazioni in Birmania e potrebbero rientrare a pieno titolo nelle minoranze etniche del Paese.
Secondo Amnesty International “i Rohingya, sotto la giunta militare birmana, sono stati vittime di numerosi soprusi e violazioni dei diritti umani, tanto che tuttora ancora 20.000 Rohingya vivono in campi profughi nel Bangladesh da quando nel 1978 in 200.000 fuggirono dalla Birmania”. Attualmente stando ai dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr), nel Myanmar vi sono 800.000 Rohingya, concentrati in maggioranza proprio nello Stato di Rakhine teatro degli scontri. Un altro milione o più sono dispersi in altre nazioni: oltre al Bangladesh, anche in Thailandia e Malaysia da dove gli attivisti Rohingya hanno più volte rivendicato, senza successo, l'appartenenza al Myanmar e il riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza.
Ora la capitale dello Stato di Rakhine, Sittwe, è controllata dalle forze di sicurezza, ma si parla di un bilancio ancora provvisorio di almeno 25 morti, 23 feriti, centinaia di abitazioni date alle fiamme e almeno 5.000 persone senza casa. E se in passato la giunta militare aveva usato il pugno di ferro verso le minoranze, anche questa occasione Thein Sein, il presidente che da oltre un anno sta traghettando il Paese dalla dittatura militare a un minimo livello di democrazia non sembra aver fatto eccezione. Lunedì è stato proclamato lo stato d'emergenza e il coprifuoco che concede ampi poteri alle forze di sicurezza e vieta assembramenti di più di cinque persone in tutto il Rakhine. Armi da fuoco alla mano dal muscoloso tentativo di riportare l’ordine sono uscite nuove vittime civili.
La comunità internazionale ha in queste ore lanciato un appello per la fine delle violenze: Washington con il segretario di Stato Hillary Clinton ha invocato “la calma e una soluzione pacifica della vicenda” affermando che la situazione “ha l'assoluto bisogno di rispetto reciproco fra tutti i gruppi etnici e religiosi”, mentre Catherine Ashton, capo della diplomazia dell’Unione europea, si dice certo che “le forze di sicurezza stanno affrontando queste difficili violenze interetniche in un modo appropriato”.
Non sono dello stesso parere molti attivisti per i diritti umani e membri della società civile birmana che non risparmiano critiche al Governo e chiedono che sia concessa la possibilità a giornalisti stranieri, diplomatici e volontari di accedere alle aree interessate dagli scontri . Elaine Pearson, vice-direttore per l'Asia di Human Rights Watch (Hrw) ha confermato che le violenze “stanno sfuggendo di mano, sotto lo sguardo del governo” tanto che sempre lunedì anche Ashok Nigam, portavoce e direttore dei contingenti delle Nazioni Unite in Birmania, ha fatto sapere che circa 40 tra i lavoratori “non essenziali” degli uffici della sede Onu (in pratica la maggioranza degli impiegati attivi in quelle strutture) hanno, almeno in via temporanea, lasciato la cittadina di Maungdaw.
Come in ogni crisi o guerra che si rispetti anche i paesi confinanti stanno “facendo” la loro parte e le Guardie di frontiera del Bangladesh hanno rafforzato i controlli e respinto numerose barche, con a bordo più di 500 rifugiati, mentre sarebbero già circa 12mila i profughi alloggiati in centri di emergenza situati in quattro diverse cittadine del Myanmar, in attesa di fuggire. Intanto, in tutto il Paese si vanno diffondendo sentimenti anti-musulmani e anti-Rohingya e solo sabato scorso intorno al luogo di culto buddista Shwedagon, Pagoda della capitale Yangon, centinaia di abitanti del Rakhine hanno manifestato contro i musulmani con cartelli del tipo “via i bengalesi dalla Birmania”. Non erano gli unici però, e questo fa ben sperare, perché molti manifestanti si sono riuniti davanti alla sede Onu di Sittwe per chiedere che si mettesse subito fine a tutte le violenze.
Alessandro Graziadei
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