domenica 24 febbraio 2013

Libia: “non basta vincere la guerra, bisogna vincere la pace”


La Libia ha celebrato il 17 febbraio scorso il secondo anniversario della “rivoluzione” contro il colonnello Gheddafi. Partita a seguito di quella Primavera che aveva fatto sperare tutto il mondo arabo è diventata ben presto una guerra civile. Comparvero armi di ultima generazione e col passare dei mesi l’appoggio dei bombardamenti all’uranio impoverito della Nato (che faranno in prospettiva più vittime civili dei raid aerei), lasciò perplessi chi immaginava una rivolta di popolo contro uno dei tanti dittatori africani, forse neanche il peggiore. Così, telecomandata dagli interessi petroliferi occidentali la guerra civile si è conclusa con la morte morte del Rais nell’ottobre del 2011, ma il nuovo esecutivo guidato da Alì Zeidan rappresenta ancora un Paese diviso lontano da una confortante democrazia e con una stabilità interna ostaggio di tribù e milizie armate. Per questo in questi giorni Tripoli è una città blindata e la Libia un Paese sigillato: i voli sono stati sospesi e le frontiere chiuse per il timore che le celebrazioni per l’anniversario dell’inizio della guerra civile si trasformino in una nuova guerriglia.
Non ha dubbi a riguardo l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) secondo cui a due anni dall’insurrezione la Libia è ancora alle prese con “il rischio di piombare nell’anarchia”. Per Arturo Varvelli ricercatore dell’Ispi “Nonostante l’impegno, il governo di Ali Zeidan, nominato nell’autunno dal Parlamento eletto nel luglio scorso, non controlla ampie parti del paese, soprattutto nel Fezzan e in Cirenaica. Qui addirittura da diverse settimane il Parlamento è stato occupato da alcuni manifestanti che ne impediscono il normale funzionamento”. Il governo transitorio aveva censito lo scorso anno circa 140mila combattenti in armi dei quali ad oggi solo 20mila circa pare abbiano aderito ai programmi di smilitarizzazione delle milizie per arruolarsi nell’esercito regolare che faticosamente va formandosi. “È difficile sapere in quanti abbiano deposto le armi e siano tornati alla vecchia vita - ha spiegato Varvelli -, ma nel frattempo le milizie controllano il territorio colmando il vuoto di sicurezza lasciato dalla caduta del regime”. Come più volte denunciato da Amnesty International anche per l’Ipsi l’ordine libico oggi non si poggia “sullo stato di diritto o sul monopolio dell’uso della forza da parte dell’autorità centrale, ma dipende dagli obiettivi delle milizie, a volte in rivalità e contrasto tra loro”. In particolare aveva fatto sapere Amnesty qualche mese fa le autorità non contrastano il razzismo e la xenofobia, alimentati ulteriormente dalla percezione, assai diffusa tra i libici, che il deposto governo abbia usato “mercenari africani” per stroncare la rivolta.

”È una vergogna che le violazioni dei diritti umani dell'epoca di Gheddafi ai danni dei cittadini stranieri, specialmente quelli di origine subsahariana, non solo siano proseguite ma siano persino peggiorate. Le autorità libiche devono riconoscere quanto siano gravi e diffuse le azioni delle milizie e prendere misure per proteggere tutti i cittadini stranieri dalla violenza e dagli abusi, a prescindere dalla loro origine o dal loro status” - aveva dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. 
Ma le milizie armate dai paesi occidentali e arabi che hanno preso parte alla guerra contro Gheddafi, non sono l’unico problema, sono solo quello più evidente. Nella galassia di queste milizie, alcune delle quali sono entrate addirittura a far parte delle formazioni regolari e delle forze di sicurezza governative, ci sono delle infiltrazioni dei radicali islamici e delle formazioni terroristiche legate al network chiamato Al Qaeda. “Il governo centrale è accusato dai jihadisti locali e internazionali di aver tradito la rivoluzione e di aver svenduto il paese all’occidente” soprattutto dopo che “all’impegno militare occidentale non è corrisposto un altrettanto impegno civile e politico nella ricostruzione del paese”, quanto piuttosto un impegno utile solo a riformulare gli accordi commerciali e constatare che la produzione petrolifera sia tornata quasi ai livelli pre-guerra.
Così anche se la maggior parte dei libici è lontana dalla lotta armata jihadista per l’Ispi e possibile che sfruttando i salafiti, ideologicamente affini e forti soprattutto nell’est del paese, Al Qaeda sia penetrata in Libia e stia cercando di connettere tra loro i gruppi autonomisti cirenaici (responsabili di numerosi attacchi, compresi quello dell’11 settembre scorso costato la vita all’ambasciatore americano Chris Stevens e quello del 16 gennaio scorso dal quale è uscito incolume il console italiano Guido De Sanctis) e altre forze destabilizzanti del paese come “le formazioni vicine ad Aqim che trafficano armi e droga dai porosi confini meridionali libici, gli ex combattenti del Libyan Islamic Fighting Group, le minoranze Tuareg e Tebu e persino gli ex Gheddafiani che condividono l’obiettivo tattico di colpire l’attuale governo”.
Non è un caso, quindi, che in occasione delle celebrazioni di questo anniversario un gruppo di ong libiche raccolte nella sigla Non c'è Pace Senza Giustizia (Npwj) al lavoro per una pacifica transizione in Libia dal 2011, siano tornate a chiedere una pace duratura e la riconciliazione del Paese con una dichiarazione congiunta. “Come membri e rappresentanti di molte organizzazioni della società civile libica provenienti da diverse città del Paese, uniti dal comune interesse nel prendere parte al processo di giustizia di transizione, e avendo in comune i valori di pace e dialogo, richiamiamo tutti gli attori della società civile ad una commemorazione pacifica e siamo determinati a raggiungere una pace duratura e la riconciliazione nel paese”. Nonostante questi mesi siano ancora dominati da un senso d’insicurezza in tutta la Libia, Npwj crede nel cambiamento e nella possibilità di arrivare alla stabilità e alla prosperità. ”Inoltre, conoscendo l'importanza del ruolo che la società civile può giocare con la partecipazione dei suoi vari attori, chiediamo ad ognuno di impegnarsi attivamente nella vita politica e sociale della nuova Libia, condividendo idee e progetti, rispettando i diversi punti di vista e promuovendo un dialogo pacifico, con reciproca tolleranza e interesse”.
Il governo centrale e il congresso in queste settimane sono riusciti a non far degenerare l'anniversario della "rivoluzione" in uno scontro fra fazioni e stanno cercando di dare una risposta alla richiesta di sicurezza e democrazia. La settimana scorsa è stato deciso che i 60 membri della nuova costituente saranno votati in elezioni ad hoc (non prima di giugno) e che la Costituzione, una volta redatta dovrà essere sottoposta a referendum e solo successivamente sarà emanata una nuova legge elettorale per la votazione del nuovo parlamento. Il processo democratico è quindi ancora lungo. Intanto l’esecutivo ha attivato politiche di rafforzamento dei controlli attorno agli impianti e alle infrastrutture energetiche (per evitare un secondo caso In Amenas) e darà il via a un programma di sicurezza in Cirenaica che prevede la visibile presenza di polizia ed esercito nazionale nelle strade, la confisca delle armi ai miliziani e infine l’arresto e l’incriminazione di chi non si disarmasse. Ma se gli autonomisti della Cirenaica hanno rinunciato alle manifestazioni previste in questi giorni per evitare di incorrere in violenze anche l’Europa, e non i singoli paesi su base bilaterale, dovranno accompagnare questo processo di pacificazione. Perché adesso “non basta vincere la guerra, bisogna vincere la pace” ha concluso Varvelli, anche se il petrolio e non la democrazia, sembra essere oggi la vera scintilla di questa “rivoluzione” libica.
Alessandro Graziadei

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