Il Myanmar è composto da un caleidoscopio di oltre 135 minoranze etniche che ha sempre avuto difficoltà a far convivere. In particolare, secondo Amnesty International, “i Rohingya, sotto la Giunta militare birmana, sono stati vittime di numerosi soprusi e violazioni dei diritti umani, tanto che tuttora ancora 20.000 Rohingya vivono in campi profughi nel Bangladesh da quando nel 1978 in 200.000 fuggirono dalla Birmania”. Attualmente stando ai dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unchr), nel Myanmar vi sono 600.000 Rohingya, mentre un altro milione o più sono dispersi in altre nazioni come il Bangladesh, la Thailandia e la Malaysia da dove gli attivisti Rohingya hanno più volte rivendicato, senza successo, l’appartenenza al Myanmar e il riconoscimento dei pieni diritti di cittadinanza.
In particolare i musulmani Rohingya, protagonisti dell’esodo di questi ultimi 8 mesi in seguito agli scontri che nello Stato del Rakhine hanno riacceso lo scorso giugno un conflitto etnico-religioso fra buddisti e musulmani (scatenato dallo stupro di una ragazza buddista ad opera di tre mussulmani), sono una comunità che il Governo considera immigrati clandestini del Bangladesh, anche se molte famiglie hanno vissuto per generazioni in Birmania e potrebbero rientrare a pieno titolo nelle etnie del Paese.
A mettere la parola fine allo scontro etnico non è riuscito neanche il presidente Obama che nella sua visita al Myanmar in novembre e l’incontro con Aung San Suu Kyi, all’università di Rangoon aveva ricordato invano che “non ci sono più scuse per la violenza contro degli innocenti”, e che “i Rohingya hanno la stessa dignità che avete voi e che ho io”. Così le violenze e l’esodo di questo popolo è continuato e il 25 gennaio, in seguito alle forti critiche da parte di organizzazioni umanitarie e dei diritti umani di tutto il mondo per i rimpatri forzati, il Governo thailandese ha deciso di concedere ai Rohingya almeno sei mesi di asilo.
Stando alle cifre dell’Associazione Popoli Minacciati (Apm) “Da novembre 2012 a oggi i Rohingya fuggiti dalla Birmania e approdati in Thailandia sono stati 4.100, di cui solo 1.477 sono giunti in Thailandia nel gennaio 2013, per lo più via mare. Finora la Thailandia, che ospita ad oggi la maggioranza dei rifugiati, rimpatriava forzatamente i profughi dopo pochi giorni dal loro arrivo, ma di ritorno in Birmania i profughi rischiavano alte pene carcerarie per fuga dalla repubblica nonostante i circa 600.000 Rohingya della Birmania non siano riconosciuti come cittadini birmani”. La Thailandia ora intende utilizzare questo lasso di tempo per avviare colloqui tra il governo birmano, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni con lo scopo di individuare una soluzione alla questione della minoranza Rohingya in Myanmar in fuga dal paese dallo scorso giugno.
"Si tratta di un gesto umanitario importante che speriamo possa contribuire ad aumentare la pressione sulla Birmania affinché ponga finalmente termine alla discriminazione e alla persecuzione dei Rohingya” ha spiegato l'Associazione per i Popoli Minacciati (Apm). Ma non facciamoci illusioni. Sempre per l’Apm “il ripensamento della Thailandia della propria politica per i profughi è probabilmente legato a cause polictiche ed economiche. In febbraio 2013, infatti, il ministero degli esteri statunitense avvierà un'indagine per verificare quanto il Governo thailandese ha fatto per porre fine al commercio di esseri umani. Il paese asiatico è stato posto sulla lista dei paesi da monitorare per ben 2 volte di seguito, alla terza volta la Thailandia rischierebbe sanzioni economiche da parte degli USA”. Dopo un servizio del 21 gennaio 2013 dell'emittente britannica BBC secondo cui ufficiali thailandesi venderebbero i profughi Rohingya a trafficanti di esseri umani, il Governo thailandese è dovuto correre ai ripari ed è possibile che “la fine dei rimpatri forzati serva unicamente per mettersi in bella luce con gli USA” ha precisato Apm.
"Si tratta di un gesto umanitario importante che speriamo possa contribuire ad aumentare la pressione sulla Birmania affinché ponga finalmente termine alla discriminazione e alla persecuzione dei Rohingya” ha spiegato l'Associazione per i Popoli Minacciati (Apm). Ma non facciamoci illusioni. Sempre per l’Apm “il ripensamento della Thailandia della propria politica per i profughi è probabilmente legato a cause polictiche ed economiche. In febbraio 2013, infatti, il ministero degli esteri statunitense avvierà un'indagine per verificare quanto il Governo thailandese ha fatto per porre fine al commercio di esseri umani. Il paese asiatico è stato posto sulla lista dei paesi da monitorare per ben 2 volte di seguito, alla terza volta la Thailandia rischierebbe sanzioni economiche da parte degli USA”. Dopo un servizio del 21 gennaio 2013 dell'emittente britannica BBC secondo cui ufficiali thailandesi venderebbero i profughi Rohingya a trafficanti di esseri umani, il Governo thailandese è dovuto correre ai ripari ed è possibile che “la fine dei rimpatri forzati serva unicamente per mettersi in bella luce con gli USA” ha precisato Apm.
Per i Rohingya però ciò che importa ora è che non saranno più rimpatriati forzatamente in Birmania e che il Governo thailandese sembra volersi impegnare per una soluzione a lungo termine della questione. Il passo successivo per l'Apm sarà chiedere alla comunità internazionale di “adoperarsi per convincere il Myanmar a procedere verso il riconoscimento dei Rohingya come cittadini birmani e verso una soluzione costruttiva del conflitto” poiché la volontà del Paese di avviare riforme in senso democratico sembra ancora poco credibile finché continua a ignorare e violare i diritti delle sue minoranze.
Proprio in occasione della conferenza dei paesi donatori e sostenitori del Myanmar (che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di oltre 30 paesi, della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e di diverse sotto-organizzazioni delle Nazioni Unite) svoltasi nella capitale birmana Naypyidaw il 19 e 20 gennaio l’Apm si è appellata ai paesi sostenitori della Birmania chiedendo loro impegnarsi sia “per un immediato armistizio nel Rakhine con il passaggio di aiuti umanitari alla popolazione civile nelle regioni di guerra”, sia “per evitare che la comunità internazionale sospenda le sanzioni contro la Birmania fintanto che continua la guerra nel paese e interi gruppi etnici vengono perseguitati ed emarginati”.
Alessandro Graziadei
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