sabato 10 gennaio 2015

Libia: si stava meglio quando si stava peggio

La strage nella redazione di Charlie Hebdo non può farci pensare a fanatici sanguinari che della libertà niente possono e vogliono sapere, ma anche al disastro politico, militare e umanitario (amico del fanatismo) che il militarismo Occidentale ha contribuito a far germogliare in questi anni. Un esempio è quello della Libia dove "si stava meglio quando si stava peggio". Sembra essere questa l’amara sintesi dell’attuale situazione del Paese a quasi 4 anni di distanza dall’intervento militare che tra il febbraio e l’ottobre del 2011 ha visto scontrarsi le forze lealiste di Muammar Gheddafi e quelle dei rivoltosi, riunite nel Consiglio nazionale di transizione con l’appoggio militare della Nato (deciso il 19 marzo 2011 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite). Sì perché, se ci fosse ancora qualche dubbio, una nota dell’Unione europea datata 22 dicembre scorso ammette che a Tripoli, Bengasi e in altre città libiche regna un caos “che negli ultimi mesi ha portato a gravi violazioni dei diritti umani, attacchi indiscriminati contro i civili, lo sfollamento forzato di circa 290.000 persone all’interno del Paese e di altre 100.000 costrette a fuggire nei Paesi vicini”.

La crisi politica di fatto si è progressivamente acuita. I depositi di carburante di Es Sider, vicino a Ras Lanuf, in Cirenaica, sono in fiamme dal 29 dicembre per gli scontri tra le milizie del governo autoproclamato di Tripoli e quelle del governo “legittimo” di Tobruk. Ma di legittimo in questo Paese non c'è più nulla ed è in corso una lotta senza quartiere per il controllo di gas e petrolio e la spartizione di profitti sia nell’est che nell’ovest del Paese e tra ottobre e novembre dello scorso anno anche nel sud della Libia, in una zona fino ad allora saldamente in mano alle tribù ed alle bande armate tuareg. Per la Libia, liberata dalla dittatura di Muammar Gheddafi con gli aiuti dei caccia atlantici e i petrodollari delle monarchie del Golfo, si può ormai parlare di uno “Stato fantasma”, senza nessun governo centrale in grado di controllare un territorio diviso tra milizie islamiche o tribali ed esercito regolare e dove ormai alcuni territori proclamano la fedeltà allo Stato Islamico e sono praticamente stati consegnati all’integralismo islamico.

Solo il 23 dicembre scorso una coppia di medici copti egiziani, che viveva in Libia da 15 anni, e la loro figlioletta di 13 anni sono stati uccisi a Jaref, a 60 km da Sirte, da un commando armato che ha incredibilmente risparmiato altre due sorelline che si trovavano in casa al momento dell’irruzione. Il movente religioso dell’attacco sembra chiaro e conferma una tendenza che dal 2011 vede crescere gli attacchi sia contro copti egiziani, che in 50.000 lavorano nel Paese nordafricano per lo più nell’edilizia e nell’artigianato, sia contro tutte le altre minoranze etniche e religiose. Al momento Sirte, la città natale di Muammar Gheddafi, è controllata da milizie islamiste, tra cui Ansar al-Sharia che lo scorso mese di novembre è stata inserita dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nella lista delle organizzazioni terroristiche. Sirte dista 500 chilometri da Tripoli e si trova nella zona vicino al confine fra Tripolitania e Cirenaica in cui si confrontano da mesi i miliziani islamisti e i soldati fedeli al governo libico rifugiatosi a Tobruk. Il 3 gennaio un attacco a un check point nel distretto centrale di Giofra ha causato la morte di almeno 18 persone (17 soldati e un civile), il giorno dopo invece un aereo da guerra libico ha bombardato una petroliera greca, nel porto di Derna, una zona da due anni sotto controllo sempre delle milizie islamiste di Ansar al Sharia. Secondo le autorità greche, la petroliera era attraccata al porto quando è stata colpita. Per l’esercito libico invece l’imbarcazione non avrebbe rispettato le procedure di sicurezza, entrando in zona militare.

Di fronte a questo disastro militare, politico e sociale la Commissione europea ha stanziato il 22 dicembre 2 milioni di euro per cercare di tappare le falle del disastroso intervento militare attuato dalla Nato, Italia compresa. Il ministero della Salute libico ha lanciato un drammatico allarme, chiedendo di evitare "l’imminente crollo del sistema sanitario", dopo che migliaia di operatori sanitari stranieri sono stati evacuati dal Paese. A Tripoli, in alcuni quartieri di Bengasi e in altre città che ospitano i profughi interni comincia a scarseggiare il cibo, dato che le scorte sono poche, le banche sono chiuse e il denaro è diventato una merce rara. Si comincia a temere di non poter più assicurare le forniture di acqua ed elettricità nei prossimi mesi. Il finanziamento europeo almeno sulla carta fornirà assistenza umanitaria essenziale e protezione per le persone più vulnerabili colpite dal conflitto. Sarà utilizzato per fornire cibo, riparo, assistenza medica e sostegno psico-sociale.  

Il commissario europeo per gli Aiuti umanitari e la gestione delle crisi, Christos Stylianides, ha spiegato che: “l’aiuto di emergenza che stiamo fornendo può essere un’ancora di salvezza per molte delle famiglie coinvolte nel conflitto. I combattimenti hanno avuto un forte impatto sulla vita dei civili, con case e infrastrutture distrutte, i servizi di base gravemente perturbati e la carenza di forniture mediche. Le persone costrette a lasciare le zone di conflitto hanno difficoltà di accedere al cibo ed ai bisogni di base. Questo è il motivo per cui l’aiuto stiamo fornendo oggi è così importante”. La Commissione europea ha anche sottolineato come “il peggioramento della situazione della sicurezza ha ostacolato l’intervento di ong e operatori umanitari internazionali che hanno abbandonato il paese lasciando solo il personale locale a far fronte ad un aumento del carico di lavoro in un ambiente critico e in rapido deterioramento”. 

Ma basteranno i soldi? No, almeno fino a quando non diventeranno un supporto ad un processo di pacificazione interno. Tuttavia, nonostante i ripetuti appelli per un cessate il fuoco fatti dalla comunità internazionale, sembra difficile vedere una soluzione pacifica per la Libia, almeno in questi primi mesi del 2015, visto che è stata proprio la scarsa lungimiranza delle cancellerie occidentali ad annichilire il Paese e radicalizzare il conflitto, che ha assunto caratteristiche etnico-religiose difficilmente conciliabili. Non male come risultato dell’ennesima guerra lampo “umanitaria”, che avrebbe dovuto proteggere quello stesso popolo libico e che oggi invece vede sventolare al posto della bandiera verde di Gheddafi, quella nera dello Stato Islamico. A noi rimane poco da dire. Per il momento solo #‎JeSuisCharlie davanti a quella bandiera verde che abbiamo contribuito a far esportare.

Alessandro Graziadei

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