Quella che beviamo e quella dove ci tuffiamo. Le acque minacciate dal profitto e dal petrolio sono difese a fatica solo dai referendum? A quanto pare sì! In principio fu il referendum sull’acqua da bere. Quella del rubinetto, quella chiamata scherzosamente “del sindaco” o meglio “pubblica”. Era il giugno del 2011 e nonostante la poca rilevanza mediatica (se escludiamo il grande lavoro sui social di attivisti, associazioni e ong) e i tentativi più o meno trasversali di trasformare la campagna referendaria nell’ennesimo scontro esclusivamente politico, gli italiani per la prima volta dal 1995 raggiungevano il quorum. Aveva vinto il Sì: "La gestione dell’acqua è finalmente sottratta al mercato e non si possono fare profitti” scriveva un entusiasta Forum italiano dei movimenti per l’acqua bene comune commentando il risultato del referendum, che ottenne oltre il 95% per cento dei Sì. Votando sì, si scelse di abrogare la legge del Governo Berlusconi che permetteva ai privati di avere quote nei servizi idrici ed inserire in tariffa i loro profitti. Quattro anni cosa è successo?
L’abrogazione ha lasciato un vuoto normativo e oggi non è ancora chiaro come ci si deve regolare a livello comunale per l’affidamento del servizio idrico e per il calcolo delle tariffe. Diverse amministrazioni hanno deciso, nell’incertezza normativa, di prolungare l’affidamento delle risorse idriche alle aziende che lo gestivano, scatenando una serie di ricorsi e legittime proteste. Ma perché l’esito della consultazione referendaria non è mai stato ratificato da una legge nazionale e l’acqua è ancora affidata al mercato? “Sono passati quattro Governi e l’esito referendario rimane ancora disatteso e anzi si sta andando in direzione ostinata e contraria: un esempio eclatante è il fatto che con la Legge di Stabilità dell’anno scorso si incentivino gli enti locali a cedere le quote di partecipazione alle aziende con cui garantiscono il servizio idrico e i servizi pubblici. L’obiettivo finale è di cedere al mercato i servizi pubblici essenziali” ha spiegato Paolo Corsetti portavoce del Forum.
Insomma a quanto pare la Legge di stabilità al pari del decreto Sblocca Italia incentivano processi di aggregazione, fusione e dismissione delle partecipate comunali e provinciali a vantaggio di grandi aziende come A2A, Iren, Hera e Acea, già quotate in Borsa. Per non parlare del Decreto legge Madia, che, se approvato nell’attuale versione, rappresenta un’ulteriore delega al Governo con indicazioni precise che puntano al rilancio dei processi di privatizzazione. Le conseguenze? Un annullamento degli esiti referendari! “Prendiamo il caso siciliano - ha spiegato Corsetti - il Governo ha impugnato la legge che la Regione Sicilia aveva fatto per tornare all’acqua pubblica e ora l’acqua è ancora in balia del mercato, e l’isola ha raggiungendo il record della privatizzazione, con 5 gestori privati su 9”. Per questo il Forum “Pur consapevole della necessità di completare il riordino della disciplina dei servizi pubblici locali, che devono diventare sempre più competitivi e di livello economico e garantire i bisogni dei cittadini nella loro comunità locale, non può non contestare l’approvazione di quei punti del testo unico palesemente in contrasto con i risultati del referendum”.
Così mentre la legge di iniziativa popolare, attualmente in discussione alla Camera, tenta di colmare il vuoto legislativo dotando il Belpaese di una normativa che renda l’acqua pubblica una volta per tutte, come deciso dalla maggioranza degli italiani nel 2011, il Governo anticipa al 17 aprile un altro referendum questa volta nato per abrogare l’articolo 6, comma 17, del codice dell’Ambiente che regola la durata delle autorizzazioni alle esplorazioni ed estrazioni con le trivelle di gas e petrolio in mare. Sbarrando la strada alle speranze di un #electionday che accorpi il referendum alle prossime elezioni amministrative come chiesto dalle Regioni, dagli ambientalisti e dai comitati No Triv, il Governo tenta di accorciare i tempi di un confronto pubblico e buttare i 300 milioni di euro del costo di una consultazione aggiuntiva. Se per i No Triv si può parlare di “schiaffo alla democrazia”, secondo Legambiente “il referendum anti trivelle spaventa il governo Renzi, che ha puntato molto nel decreto cosiddetto Sblocca Italia, sulle estrazioni di idrocarburi come asset strategico nazionale. Anche se il gas contenuto sotto i nostri fondali marini coprirebbe solo sette settimane di fabbisogno energetico. Non molto, considerando che l’obbiettivo dichiarato è di garantire autonomia energetica al nostro Paese”. Di “decisione antidemocratica e scellerata” e di “truffa pagata coi soldi degli italiani”, ha parlato invece Andrea Boraschi di Greenpeace, secondo cui “Renzi sta giocando sporco, svilendo la democrazia a spese di tutti noi” visto che “l’election day garantirebbe i tempi necessari per poter informare i cittadini, senza moltiplicare inutilmente gli appuntamenti degli italiani alle urne”.
La sfida come nel 2011 riguarda i nostri beni comuni, in questo caso l’acqua dei nostri mari e il suo ecosistema. Perché spremere i nostri fondali fino all’ultima goccia, rischiando danni ambientali ed economici incalcolabili? Se lo chiedono oltre agli ambientalisti e le persone di buon senso, anche le Regioni che in questi anni hanno puntato su pesca, turismo e attività lavorative legate al mare e al territorio. Il voto di ognuno di noi è fondamentale e ci permettiamo di ricordare che nel 2011 qualcuno non volle accorpare i referendum con le amministrative. Buttò i nostri soldi e perse entrambi... Il Governo è avvisato.
Alessandro Graziadei
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