Il dossier, le denunce e la costante presenza nella provincia di Latina di In Migrazione, una cooperativa sociale nata dalla volontà di un gruppo di professionisti impegnati nell’accoglienza e nel supporto agli adulti stranieri, hanno in questi anni tenuto i riflettori accesi sulle drammatiche condizioni di sfruttamento dei braccianti Sikh provenienti dalla regione indiana del Punjab e vittime del caporalato nell’Agro Pontino. Nonostante qualche miglioramento delle condizioni di lavoro e qualche diritto in più, i braccianti sikh sono ancora trattati da schiavi. Occupati nelle serre dove lavorano fino a 14 ore al giorno per produrre principalmente cocomeri, meloni, stelle di Natale e primizie orticole, sono pagati da un massimo di 4 euro e mezzo all'ora a un minimo di 50 centesimi. Un contesto nel quale anche i richiedenti asilo iniziano ad essere sempre più spesso reclutati dai caporali per lavorare con stipendi ancora più bassi e concorrenziali rispetto a quelli dei braccianti Sikh.
A lanciare l’allarme sulla condizione di questi contadini, che sono diventati l’anello debole di una catena di produzione ricchissima qual è ormai l’export dell’agricoltura in provincia di Latina, c’è anche il sociologo Marcello Omizzolo, che all’analisi del fenomeno dei braccianti nell’Agro Pontino si dedica da anni e nonostante le minacce e le intimidazioni (l’ultima lo scorso marzo), ha ben descritto la rete dei caporali, le condizioni di vita, i problemi di salute e lo stato delle abitazioni di questi lavoratori rispetto al quale lo Stato italiano è ancora indifferente. A poco è servita la solidarietà del Gruppo Abele di don Ciotti e quella dell’ex procuratore antimafia Giancarlo Caselli, che nelle scorse settimane in qualità di presidente dell'Osservatorio sulle agromafie, ha scritto ad Omizzolo l’apprezzamento per “il coraggio e la solidarietà assoluta con la quale Ella si dedica ad un problema rischioso, complesso e difficile come quello del caporalato”. Per fortuna non ovunque è così. In quasi tutte le stalle della Pianura Padana, per esempio, la manodopera italiana è stata sostituita dai Sikh che lavorano da più di un decennio in buone condizioni igieniche, ricevono la giusta paga non in nero e sono ospitati in abitazioni rurali dignitose, spesso cedute loro gratuitamente dai datori di lavoro.
L’opposto di quanto accade nell’Agro Pontino, un’area fuori legge di cui lo Stato italiano sembra aver perso il controllo anche per quanto riguardo lo spaccio e il consumo di droghe. Ma non parliamo di stupefacenti utili allo sballo, ma dell’utilizzo del doping da parte di molti braccianti Sikh. A denunciare la drammatica situazione era stata già nel 2014 sempre In Migrazione con il rapporto Doparsi per lavorare come Schiavi, che aveva rivelato l’esistenza alle porte di Roma di un esercito di braccianti Sikh sfruttati e costretti a doparsi per sopportare la fatica dei campi e le violenze dei “padroni” italiani. Una forma di doping che sembra essere ancora molto diffuso anche se è spesso vissuto con vergogna e praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, per questo severamente contrastato da tutta la comunità Sikh. L’assunzione di sostanze di qualunque tipo (dalle sigarette a un qualunque stupefacente o dopante) è, infatti, severamente proibita dalla religione dei Sikh e dunque condannata senza remore. Se per alcuni braccianti doparsi è una necessità di sopravvivenza, questa pratica rischia di lasciare profonde cicatrici in una comunità che nel rispetto delle tradizioni e della propria filosofia di vita fonda le sue radici e la sua stessa identità. Una vergogna che rischia di isolare chi cade in questa dipendenza.
L’utilizzo del doping da parte di alcuni lavoratori rischia quindi di alterare abitudini e dinamiche di una comunità fiera e coesa, inserita in un tessuto sociale che non offre tanti servizi per l’inclusione oltre a quelli messi in campo da In Migrazione. Eppure per alcuni lavoratori Sikh si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti a quella che è la seconda comunità d’Italia per dimensioni e che secondo le stime della CGIL conta ufficialmente circa 12.000 persone, sebbene sia immaginabile possa essere composta da un numero di persone più che doppio. Così in un’area dove la presenza delle mafie è radicata anche nel mondo agricolo e imprenditoriale in silenzio, sfruttati e sottopagati, molti Sikh sono costretti, per sopportare le fatiche quotidiane, ad assumere sostanze dopanti e antidolorifiche utili per andare avanti, ma con pesanti effetti sulla salute. Le sostanze dopanti, probabilmente più d’una, sembrano siano vendute al dettaglio anche da alcuni indiani della comunità, molti dei quali sono stati arrestati negli ultimi anni grazie a diverse operazioni delle forze dell’ordine. Per In Migrazione, però, il “traffico all’ingrosso sé ancora saldamente in mano ad italiani senza scrupoli e ben organizzati", che soddisfano una “domanda” figlia dei ritmi di sfruttamento e di lavoro.
Oggi se in chi ne fa uso prevale la vergogna di disattendere i dogmi religiosi, chi accetta di parlarne con operatori e giornalisti si divide tra la condanna e un sentimento di giustificazione per i connazionali che cercano comunque di rendere onore a un altro principio alla base della religione Sikh: lavorare seriamente e con onestà. Che fare? Le azioni repressive non possono bastare se non unite a misure di inclusione sociale dei Sikh che vivono nel territorio dell'Agro Pontino. L’auspicio è che si possa sviluppare una riflessione a partire dalla comunità Sikh pontina, utile a promuovere politiche sociali indispensabili per sconfiggere lo sfruttamento, il caporalato, il sistema di tratta che caratterizza questa migrazione e chi ha pensato di guadagnare su questo popolo anche “drogandoli per lavoro”.
Alessandro Graziadei
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