L’idea che la maggior parte delle nostre vacanze possa al massimo definirsi responsabile, ma quasi mai sostenibile, non è una novità. La vacanza, o meglio la possibilità di avere tempo e denaro per viaggiare, è, infatti, un conquistato diritto di una buona parte dei cittadini dei soli paesi industrializzati, ma è un diritto non privo di controindicazioni visto che è capace di spostare fuori dai propri confini più di 600 milioni di nomadi del benessere che lasciano casa e lavoro per trasformarsi in una gigantesca “mandria in transumanza stagionale”, alla quale vanno aggiunti gli spostamenti interni, che secondo l’Organizzazione Mondiale del Turismo (Unwto) sarebbero addirittura 8 volte superiori a quelli internazionali. Non è un caso, quindi, che soprattutto negli ultimi decenni, il turismo sia diventato non solo una delle principali industrie mondiali, più importante di quella automobilistica, dell’acciaio, dell’elettronica e dell’agricoltura, ma anche una delle meno sostenibili, generando un’impronta di carbonio “degna” di un comparto che muove circa 5.000 miliardi di dollari all’anno di fatturato, genera il 6% del prodotto lordo del pianeta e impegna più di 120 milioni di lavoratori.
Fino ad oggi però non era chiarò quanto l’industria del turismo fosse impattante visto che le principali ricerche sul tema avevano quantificato l’impronta di carbonio dei vacanzieri limitandosi ad alcuni aspetti specifici delle attività turistiche come hotel, ristoranti, servizi, eventi e infrastrutture, senza analizzare l’impatto di tutte le catene di approvvigionamento del comparto turistico dai voli ai souvenir. Ora lo studio “The carbon footprint of global tourism”, pubblicato su Nature Climate Change da un team delle università australiane di Sidney e del Qeensland, ha messo sotto la lente d'ingrandimento l’impatto di tutta la filiera turistica in ben 189 Paesi, dimostrando il vero costo dei nostri viaggi e non lasciando più alcun dubbio sulla sua portata, visto che per i ricercatori australiani “L’impronta globale delle emissioni di gas serra legate al turismo globale è quattro volte maggiore rispetto alle stime precedenti” e “sta crescendo più velocemente del commercio internazionale”.
Lo studio, guidato dall’Integrated Sustainability Analysis supply-chain research group dell’università di Sydney è una valutazione completa della crescita dei viaggiatori internazionali e delle entrate del turismo la cui diretta conseguenza è che “tra il 2009 e il 2013 l’impronta di carbonio globale del turismo è aumentata da 3,9 a 4,5 miliardi di tonnellate di CO2 equivalenti”, quattro volte più delle stime precedenti e pari a circa l’8% delle emissioni globali di gas serra. Per questo per la coordinatrice dello studio, Arunima Malik, della School of Physics dell’università di Sidney, questa complessa ricerca, che ha richiesto un anno e mezzo di lavoro per completare e integrare più di un miliardo di catene di approvvigionamento turistico e il loro impatto sull’atmosfera, “colma una lacuna cruciale utile all’Organizzazione mondiale del turismo e all’Organizzazione meteorologica mondiale per quantificare, in modo completo, l’impronta turistica nel mondo includendo contributi importanti dell’industria turistica come i trasporti aerei e lo shopping”.
Secondo Ya-Yen Sun della Business School dell’università del Queensland e della National Cheng Kung University di Taiwan, che ha contribuito allo studio “È fondamentale ripensare al turismo come un’attività a basso impatto” e la comunità internazionale dovrebbe prendere in considerazione la sua inclusione in futuro negli impegni climatici, come l’Accordo di Parigi, “legando i voli internazionali a sempre più necessarie carbon tax o carbon trading schemes utili a ridurre la futura crescita incontrollata delle emissioni legate al turismo”. Per il gruppo di ricerca australiano è chiaro, infatti, che il trasporto aereo è il fattore chiave della pesante impronta ecologica del turismo e che questa industria ad alta intensità di carbonio comprenderà una percentuale sempre più significativa di emissioni globali. In futuro per i turisti pagare per una riduzione a lungo termine del carbonio nel prezzo del viaggio aereo potrebbe essere l’unica soluzione per contenere l’inquinamento. Un costo che per la Malik è diverso a seconda del reddito visto che “Quando le persone guadagnano più di 40.000 dollari all’anno, la loro impronta di carbonio derivante dal turismo aumenta del 13% per ogni aumento del 10% del reddito” ha concluso la Malik.
I ricercatori hanno anche raccomandato di fornire ai Paesi più turistici un’assistenza finanziaria e tecnica che possa contribuire a condividere oneri quali il riscaldamento globale per le mete dedicate agli sport invernali, l’innalzamento del livello del mare nelle isole e l’impatto dell’inquinamento sulle destinazioni esotiche e vulnerabili. In Paesi come le Maldive, Mauritius, Cipro e Seychelles, per esempio, il turismo internazionale rappresenta tra il 30% e l’80% delle emissioni nazionali. “I piccoli Stati insulari [come Palau] sono in una posizione difficile perché si affidano molto al reddito turistico, ma sono allo stesso temp più vulnerabili agli effetti dell’innalzamento dei mari e dei cambiamenti climatici” hanno ricordato i ricercatori australiani.
Anche se il World travel and tourism council (Wttc) ha ricordato, per voce di Rochelle Turner direttrice ricerca del Wttc, “che gli sforzi dell’industria turistica per tagliare le emissioni di carbonio sono da tempo un impegno concreto” è evidente che questo impegno è in buona parte insufficiente. La soluzione al momento sta negli stili di vita e nella capacità dei turisti/consumatori di riconoscere quale sia il loro impatto su una destinazione e quanta acqua, rifiuti ed energia è possibile utilizzare per non alterare l’equilibrio delle popolazioni visitate. Una prospettiva che ci fa capire quanto il turismo, di per se insostenibile, debba almeno essere sempre più responsabile.
Alessandro Graziadei
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