La repressione religiosa non è mai stata una novità in Cina, il dato allarmante è che la condizione delle minoranze religiose cinesi sta costantemente peggiorando. Milioni di tibetani subiscono da decenni il controllo statale sull'esercizio della loro religione, ma lo stesso vale anche per i Cristiani e per i seguaci del movimento Falun Gong. Attualmente chi maggiormente subisce il controllo di Pechino sono i credenti musulmani nella regione dello Xinjiang ai quali è stato vietato la celebrazione del Ramadan, di insegnare la loro lingua nelle scuole e dal 2016 sono costretti a fornire il Dna per ottenere il passaporto. Come se non bastasse almeno 1,5 milioni di musulmani dello Xinjiang sono internati in campi di lavoro forzato e l'intera regione viene monitorata tramite un controllo digitale senza precedenti. Il Governo di Xi Jinping non ha mai riconosciuto l’esistenza di “campi di rieducazione” e ha sempre preferito parlare di “campi di studio” e “centri di formazione professionale” utili a contenere alcune “vocazioni religiose politicamente scorrette” in nome della “stabilità nazionale”. Secondo Radio free asia (Rfa) la politica della “terra bruciata” attuata da Pechino contro i mussulmani è peggiorata lo scorso anno quando l’intera popolazione maschile di Chinibagh e Yengisheher, due villaggi dello Xinjiang, è stata internata in un campo di rieducazione. Per le autorità cinesi i maschi mussulmani nati negli anni ‘80 e ‘90 sono “una generazione inaffidabile” e potenzialmente da rieducare perché “rappresentano un costante pericolo”, per questo si sospetta che provvedimenti simili siano stati applicati in questi mesi anche in altre città dello Xinjiang.
Come ha recentemente ricordato la Religious Repression: Faith Under State Control in Tibet Autonomous Region, che si occupa da anni dei molti altri tentativi messi in atto dal governo cinese di controllare e gestire l’esercizio della religione e le figure religiose in Tibet, l’intero apparato di sorveglianza e repressione usato nello Xinjiang può essere ascritto a Chen Quanguo, l’attuale segretario del Partito Comunista Cinese dello Xinjiang che in passato ha potuto perfezionare il suo sistema repressivo proprio in Tibet. Per l’Associazione Popoli Minacciati (Apm) l’esperienza tibetana ha fatto “scuola” a cominciare dal caso del Panchen Lama, il secondo più alto leader spirituale dei Tibetani, che è stato ricordato lo scorso 2 luglio durante la sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Al Side Event dell’Apm a Ginevra si è parlato del rapimento nel 1996 di Gedhun Choekyi Nyima, che all'epoca dei fatti aveva sei anni e un anno prima era stato riconosciuto dall’attuale Dalai Lama come undicesimo Panchen Lama e, proprio per questo, fu rapito insieme alla sua famiglia dalle autorità cinesi. Il destino dell'ormai trentenne è tuttora sconosciuto nonostante il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni involontarie o forzate ha ripetutamente affrontato il caso e ha invitato la Cina a rendere pubblico il luogo in cui si trova il Panchen Lama. Per l’Apm “Il Panchen Lama ha un ruolo importante nella scelta del prossimo Dalai Lama. Mantenendo segreto il destino del Panchen Lama, Pechino spera, alla morte dell'attuale Dalai lama, di poter influire sulla scelta del prossimo leader spirituale tibetano”. Proprio per questopoco dopo il suo rapimento, Pechino ha designato un proprio Panchen Lama, fedele al partito, che però non è mai stato riconosciuto dai Tibetani.
Anche per questo l’Apm ha criticato il fatto che proprio all'inizio della seduta del Consiglio per i Diritti Umani dello scorso 2 luglio è stata data la parola anche al vice-governatore dello Xinjiang: “Non può essere - ha dichiarato il referente dell'APM - che una persona che è direttamente coinvolta negli arresti di massa arbitrari di Uiguri, Kazachi e Kirghisi abbia la possibilità di esporre la sua versione per 25 minuti davanti al Consiglio dei Diritti Umani mentre le organizzazioni per i diritti umani fanno sempre più fatica a trovare spazi e a farsi sentire dalle Nazioni Unite”. Da anni il Governo cinese cerca di rifarsi un’immagine internazionale enfatizzando il proprio impegno per la “pace”, lo “sviluppo” e la “stabilizzazione” del Tibet, uno percorso che per la popolazione tibetana significa per lo più sradicamento dal proprio territorio e distruzione della propria cultura, religione e società. Di fatto negli ultimi anni la Regione Autonoma del Tibet ha sì registrato l’aumento del prodotto interno lordo, grazie all’ampliamento di infrastrutture come il un nuovo terminal di Nyingchi Mainling, il secondo aeroporto del Tibet destinato a gestire entro il 2020 un flusso di circa 750.000 passeggeri o la costruzione di nuove linee ferroviarie e superstrade per facilitare i collegamenti della regione con i maggiori centri urbani nell’est della Cina, ma lo ha fatto violando sistematicamente i diritti umani dei Tibetani. Per l’Apm “Come sempre il massiccio ampliamento delle vie di comunicazione e delle infrastrutture volute da Pechino avviene senza il coinvolgimento della popolazione tibetana e senza un confronto sulle visioni alternative di sviluppo della popolazione tibetana”.
Le decisioni governative fino ad oggi non hanno mai tenuto conto delle reali necessità della popolazione per la quale il presunto sviluppo spesso non comporta altro che un peggioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti. Per l’Apm in questo sviluppo scorsoio in salsa cinese “Le popolazioni nomadi perdono progressivamente il loro territorio, le loro mandrie e i pascoli, l'intensificarsi dell'attività mineraria è responsabile di distruzione e problemi ambientali sempre maggiori mentre l'ampliamento delle vie di comunicazione facilita soprattutto il crescente insediamento della popolazione maggioritaria cinese di etnia Han che ha assunto un ruolo di rilievo nell'economia e nell'amministrazione del Tibet”. Per l’Apm “Lungi dall’aver tratto degli insegnamenti dalla storia a partire dalla sollevazione popolare di 59 anni fa e contrariamente a quanto sostenuto dalla Cina, il modello di sviluppo ufficiale cinese non sta affatto contribuendo a una maggiore stabilità nella regione, ma sta invece fomentando frustrazione e rabbia tra la popolazione”.
Alessandro Graziadei
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