Lo scorso mese i profughi Rohingya di fede musulmana, scappati dallo Stato birmano del Rakhine e ospitati nei campi profughi del Bangladesh di Cox’s Bazar dove sono ammassate da mesi 700mila persone, hanno ricordato il secondo anniversario dello scoppio dell’ultima ondata di violenze tra i militari dell’esercito birmano e quelli dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa). Il 25 agosto di due anni fa, infatti, lo scoppio delle tensioni portò all’esodo di massa della popolazione musulmana di etnia Rohingya, originaria del Bangladesh, ma residente in Myanmar da generazioni. È stato questo un anniversario amaro visto che il governo del Myanmar ancora “non ci riconosce come minoranza il diritto di cittadinanza” e “ci ha costretto ad un limbo istituzionale”, ha spiegato Abdur Rashid, un profugo Rohingya al momento residente nel Campo 4 di Kutupalong, a Cox’s Bazar. Rashid e altri manifestanti hanno mostrato striscioni e cartelli nel grande spiazzo fangoso vicino al campo profughi per rivendicare le proprie ragioni: “Vogliamo tornare tutti insieme, vogliamo rassicurazioni sulla nostra sicurezza, sui diritti di cittadinanza, sulla carta d’identità nazionale. Vogliamo vivere nella nostra terra natia con dignità. Per noi, oggi è il giorno del genocidio. È un giorno nero. Vogliamo giustizia”.
Nonostante negli scorsi mesi gli investigatori delle Nazioni Unite abbiano definito gli omicidi di massa e gli stupri compiuti dai soldati birmani durante gli attacchi una “prova di genocidio” il Governo di Dacca continua ad affermare di non riuscire più a sopportare il peso dell’accoglienza e ha chiesto al Myanmar di promuovere nuove procedure di rimpatrio. Per il Bangladesh, infatti, le autorità birmane sono responsabili della crisi dei profughi e dei falliti tentativi di riportare in patria gli esuli, per via delle loro leggi liberticide. Il 22 agosto scorso, per la seconda volta, doveva iniziare il rimpatrio volontario del primo gruppo di oltre 3mila persone. Tuttavia nessuno si è presentato al punto di raccolta perché i profughi non hanno al momento ancora alcuna garanzia che il Governo birmano riconosca loro la cittadinanza. Dopo il rifiuto da parte dei profughi di presentarsi all’appuntamento del 22 agosto, Ak Abdul Momen, ministro bengalese degli Esteri, ha dichiarato che la mano di Dacca si farà più pesante se essi si opporranno ancora. “I volontari non lavoreranno più per loro – ha minacciato – giorni duri verranno, se essi si rifiuteranno di tornare in Myanmar. Per i loro figli, sarà ancora più difficile. Il Bangladesh non può assumersi la responsabilità dei bambini Rohingya perché non abbiamo insegnanti di lingua birmana”.
Per Noor Mohammad, un giovane rifugiato con tre figli, la situazione è inaccettabile: “I nostri bambini non ricevono istruzione, non abbiamo accesso alle scuole. Le nostre future generazioni devono essere liberate da un futuro così oscuro”. Purtroppo però le attuali leggi birmane non danno scelta e di fatto i profughi rischierebbero semplicemente di trasferirsi da un campo profughi a un altro. Gli esperti internazionale ritengono che le fallite operazioni di rimpatrio porteranno i musulmani a tentare di fuggire dai campi per trovare fortuna in altre zone del Bangladesh, uno Stato che negli scorsi mesi ha dovuto fare i conti con l’aggravarsi di un’altra emergenza: la febbre dengue. Per ora il bilancio non ufficiale parla di quasi 200 morti, mentre dall’inizio dell’anno sono state oltre 64mila le persone che hanno contratto il virus. Per la Direzione generale dei servizi sanitari del Bangladesh, (Dghs) che divulga i dati dell’epidemia, è la peggiore mai registrata nel Paese: “Al momento 5.562 persone sono ricoverate in ospedali pubblici e privati; di questi, la maggior parte si trova nell’area di Dacca (3.081). Dall’1 gennaio al 26 agosto, più di 64mila persone hanno contratto la malattia; di queste, poco più di 59mila sono state dimesse dagli ospedali dopo i trattamenti”.
Un’emergenza confermata anche dal Rangpur Medical College Hospital di Dacca che da settimane sta curando molti dei contagiati da questa malattia infettiva tropicale causata dal virus omonimo e trasmessa da una particolare specie di zanzara che prolifera molto bene nelle zone stagnanti e malsane delle aree urbane. In Bangladesh in particolare il virus è trasmesso dalla zanzara “Aedes”, anche nota con il nome di “zanzara della febbre gialla”. Il virus si presenta inizialmente con febbre, cefalea, dolori muscolari e articolari, oltre alla caratteristica eruzione cutanea simile a quella del morbillo, ma in taluni casi il virus sviluppa una febbre emorragica che può evolvere in shock circolatorio e nella morte. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno nel mondo almeno 50 milioni di persone sono contagiate dal virus e al momento non esiste una vaccinazione efficace. Che fare? L’unico modo per prevenire la febbre è l’eliminazione delle zanzare e del loro habitat. Un processo di bonifica che dovrebbe far preoccupare le autorità di Dacca più della "questione Rohingya".
Alessandro Graziadei
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