domenica 11 dicembre 2016

Il progresso è in tavola (e non funziona)

“La nostra specie accumula progresso, ma non sollievo” ha detto lo scrittore Erri De Luca. Uno spunto utile per riflettere su alcuni recenti risultati del progresso scientifico e medico applicato al settore alimentare. Sia chiaro, il progresso ha contribuito a migliorare ed allungare le nostre vite e non è certo lui che va messo in discussione, quanto piuttosto l’uso che talvolta ne viene fatto. Perché in campo alimentare il progresso fino ad oggi ha avuto principalmente un fine: massimizzare i profitti e non per forza migliorare la qualità e la quantità di quello che mangiamo, come prometteva la favola degli ogm, che solo 20’anni fa Monsanto ed altre multinazionali garantivano avrebbe “sfamato il mondo”. Insomma appare sempre più strano immaginare come oggi varietà resistenti agli erbicidi possano avere vantaggi di crescita senza l’acquisto del relativo erbicida o varietà di mais resistenti all’attacco dei parassiti possano crescere senza dosi massicce di fertilizzanti. Tutte condizioni con enormi limiti ecologici e sanitari che non hanno cancellato la fame nei paesi in via di sviluppo.

A metterlo nero su bianco, ultimo in ordine di tempo, è stato il New York Times che ha recentemente pubblicato una lunga inchiesta sui risultati dell’agricoltura geneticamente modificata negli USA. Partendo dai dati delle Nazioni Unite, il quotidiano newyorkese è giunto alla conclusione che “questa tecnologia non ha assicurato né maggiori rese agricole né una diminuzione nell’uso dei pesticidi", smentendo entrambe le grandi promesse su cui fanno leva da sempre i sostenitori degli ogm. In particolare, si legge “durante gli ultimi due decenni nelle coltivazioni di granturco, cotone e soia degli Usa l’irrorazione di erbicidi è cresciuta del 21%, l’opposto di un trend che in Francia, ad esempio, ha portato a una riduzione del 36% di queste stesse sostanze”. Chi ci guadagna? Non certo la sicurezza alimentare mondiale. Tanto meno i consumatori a stelle e strisce. A guadagnarci sono sempre i colossi dell’agroindustria, perché quasi sempre le stesse multinazionali che vendono i semi ogm commercializzano anche i pesticidi più adatti a trattarli.

Il paragone con l’Europa occidentale, in gran parte priva di ogm, per gli USA è poco entusiasmante anche dal punto di vista dei risultati: “le rese agricole europee non si discostano da quelle americane nella produzione di mais e barbabietola da zucchero, superandole addirittura nella produzione di colza”. Certo l’inchiesta del New York Times è stata criticata dai potenti mezzi comunicativi a servizio dell’industria delle tecnologie ogm (tra cui la Monsanto), che suggerisce come altre comparazioni portino a ben altri risultati. Vero, ma difficilmente sembra possibile falsificare le conclusioni generali confermate anche dal mercato, visto che l’ultimo rapporto dell’Associazione delle Aziende del Biotech (Isaaa) parla di un inequivocabile “calo nelle coltivazioni mondiali di ogm pari a 1,8 milioni di ettari tra il 2014 e il 2015”

Un problema solo degli USA? Anche se attualmente non ci sono colture ogm in Italia, se non a livello sperimentale, non significa che il nostro sia un Paese “ogm free”. Infatti la gran parte dei mangimi utilizzati negli allevamenti italiani, eccetto quelli biologici, è prodotta a partire da soia e mais geneticamente modificati importati da Stati Uniti, Canada e America Latina. Ma il Belpaese detiene un diverso e poco edificante primato. Secondo il nuovo report dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse in inglese Oecd) sull’utilizzo di antibiotici e sul fenomeno dell’antibiotico resistenza, negli ultimi 10 anni il consumo di antibiotici nei 34 paesi dell’Ocse è cresciuto in media del 4% raggiungendo una media di 20,5 dosi ogni 1.000 abitanti. Il 70% degli antibiotici venduti in Europa non è però utilizzato per le persone, ma negli allevamenti intensivi di animali, per fronteggiare le scarse condizioni igieniche, il sovraffollamento e lo stress che generano le numerose malattie che colpiscono gli allevamenti. Di conseguenza, o direttamente attraverso il consumo di carne, latte e derivati, o indirettamente attraverso le deiezioni degli animali che raggiungono le falde acquifere inquinando l’ambiente, gli antibiotici arrivano fino a noi. Così, quando è davvero necessario usarli, diventano inefficaci come succede in Italia, che per l’Ocse è il paese che fa registrare uno dei peggioramenti più preoccupanti “passando da una resistenza agli antibiotici intorno al 17% nel 2005 a circa il 33% nel 2014”.

Per il report l’Italia è il terzo paese nella particolare classifica della resistenza al trattamento a base di antibiotici, dietro soltanto alla Turchia e alla Grecia. Un problema di salute e a cascata anche economico visto che, come riferisce l’Ocse, “l’antibiotico resistenza pone un onere significativo sui sistemi sanitari e i bilanci nazionali. Gli ospedali in area Ocse spendono, in media, tra i 10.000 e i 40.000 dollari per il trattamento di un paziente infettato da batteri resistenti. I costi sociali possono essere alti come i costi sanitari, a causa della perdita di produttività e di reddito. È tutto ciò è preoccupante perché stiamo andando verso una era post-antibiotica, dove le infezioni comuni possono diventare, ancora una volta, fatali”. Alla luce di queste recenti indagini non sembra stupido ripensare l’uso del progresso in campo alimentare, senza più barattare il profitto con la nostra salute e la pessima qualità di quello che mangiamo.

Alessandro Graziadei

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