sabato 28 gennaio 2017

La Women’s March e la resistenza al femminile

Grazie a Donald Trump (il presidente che, tra le altre, in una registrazione del 2005 aveva detto che “una donna la puoi prendere per le parti intime” perché “se sei un uomo potente ti fanno fare di tutto”) sono state migliaia le persone che sabato 21 gennaio hanno partecipato alla Women’s March con o senza il Pussyhat in testa (il berretto rosa con le orecchie da gatto divenuto il nuovo simbolo del “pink power”). Ad indossarlo sono state non solo le donne di ogni età, ma anche gli uomini, i bambini, i giornalisti, i poliziotti, i cani, i pupazzi e le statue che hanno dato vita a quel variegato popolo in rosa nato per contestare il sessismo del neo inquilino della Casa Bianca e che ha contato 500.000 manifestanti a Washington e circa 4 milioni di persone in oltre 600 città di tutto il mondo. Raccontando questo trasversale movimento popolare per i diritti civili, la lotta al sessismo e all’omofobia, molti media hanno finito per esasperarne il folklore o come Roberto Saviano su la Repubblica, per ridurlo a qualcosa “dal sapore antico, d’archivio” incapace di parlare “a chi in questo momento non ha fiducia in alcun progetto politico”. C’è anche chi, come la reporter Asra Nomani sul The New York Times, ha messo in discussione il carattere “spontaneo” della manifestazione, con un articolo in cui evidenziava come almeno 50 movimenti che hanno organizzato la marcia hanno il sostegno finanziario del miliardario George Soros, uno dei principali finanziatori anche della campagna della candidata democratica Hillary Clinton (due sponsorizzazioni che, a non pensare male, non rappresentano di per sé una contraddizione).

Rimane in ogni caso il fatto che per quanto “folkloristica”, “vecchia” e sostenuta da chi per ragioni anche economiche può aver strumentalizzato la sensibilità femminista e la lotta per i valori democratici, le ragioni di questa protesta contro Trump appaiono molteplici e certamente condivisibili. Per molti la Women’s March è stata l’occasione sia per rivendicare i diritti delle donne, la giustizia sociale, l’uguaglianza, che quella per ribadire il proprio no al razzismo, all’omofobia e all’islamofobia. Hanno sfilato gruppi ambientalisti, anti-razzisti, omosessuali e transgender, i sindacati, le associazioni che si battono per la riforma giudiziaria, contro la povertà, per l’istruzione pubblica e per la libertà di stampa. Ma non è stata solo una marcia politica di quella parte democratica che ha perso nonostante i tre milioni di voti popolari in più ottenuti dalla Clinton. È stata la protesta di persone omosessuali il cui matrimonio potrebbe essere sciolto, di donne che vedranno il diritto all'aborto ostacolato grazie alla cancellazione dei finanziamenti del governo federale a tutte le organizzazioni che praticano o fanno informazione sulle interruzioni di gravidanza nel mondo (come avevano già fatto Reagan e George Bush), di malati a cui non sarà più riconosciuta la copertura sanitaria. Tutte questioni che spesso non hanno bisogno di una “mediazione politica” per convogliare verso una piazza accanto ad un movimento qualsiasi solidale con le proprie rivendicazioni.

“In un momento difficile della nostra storia, dobbiamo ricordare che noi, le centinaia di migliaia, i milioni di donne, transessuali, uomini e giovani che sono qui alla Marcia delle donne, noi rappresentiamo le potenti forze del cambiamento che sono determinate a evitare che le culture morenti del razzismo, dell’etero-patriarcato risorgano di nuovoha ricordato Angela Davis, la storica attivista del movimento afroamericano intervenuta a Washington in una manifestazione che sarebbe ingiusto liquidare come “roba da vip di Hollywood”, come ha provato a fare qualche caustico opinionista. Certo Scarlett Johansson e Madonna sono mediaticamente più popolari di altri e un Alicia Keys che alza il braccio sinistro col pugno chiuso non si vede certo tutti i giorni (l’ultima volta  a rievocare il Potere Nero erano stati due atleti di colore Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del 1968), ma a Washington c’era anche la politica e la società civile. Oltre alla Davis, hanno parlato la senatrice della California Kamala Harris, che ha detto: “Siamo in un momento fondamentale della nostra storia”; Gloria Steinem storica militante femminista che si è detta felice di vedere in marcia “un femminismo di nuova generazione, capace di parlare a tutte e tutti” e la senatrice dell’Illinois, Tammy Duckworth, che ha perso entrambe la gambe in Iraq e ha dichiarato: “non ho dato parti del mio corpo perché la nostra Costituzione venga fatta a pezzi”. È stato veramente solo un momento utile a liberare la rabbia e lo sdegno accumulati da una parte consistente di nord americani verso il loro presidente?

In realtà la società civile a stelle e strisce non ha mai nascosto il proprio dissenso alle politiche del nuovo governo. Prima di Natale, il Guardian aveva annunciato l’incremento esponenziale delle donazioni private alle non-profit americane che si occupano principalmente di ambiente e di diritti civili. Che si trattasse di piccole associazioni locali o di grandi colossi come Planned Parenthood, che offre assistenza medica alle donne e garantisce il diritto all’aborto, il non-profit americano ha registrato un inaspettato aumento delle donazioni, con moltissimi cittadini che, allo scambio dei regali hanno preferito la donazione di denaro. Come ha scritto Eva Golinger, una giornalista investigativa americana naturalizzata venezuelana, oggi sta maturando la consapevolezza che “il volto più volgare, grottesco, ignorante, misogino, razzista, xenofobo e selvaggiamente capitalista dell’impero statunitense ha assunto il controllo della Casa Bianca e dei codici segreti dell’arsenale nucleare più potente e pericoloso del mondo”. Davanti a questa prospettiva, forse dare tempo e lasciar lavorare in pace Trump, come hanno consigliato anche alcuni critici della Women’s March, è un atteggiamento che rischia di sottovalutare il fatto che anche le idee, espresse con la semplicistica brutalità tipica di questa amministrazione, rischiano di abituare un popolo a contenuti molto pericolosi. 

Questa, insomma, è l’America di Donald Trump. Quella che al giuramento del nuovo presidente presenta un gabinetto etnico (c'è un solo afroamericano e per la prima volta in più di 30 anni non c’è un solo ispanico) e dove le tre donne sono degnamente rappresentate dal nuovo segretario all’istruzione, Betsy Devos, che “vuole eliminare l’istruzione pubblica” e non perde occasione per ribadire la sua contrarietà al divieto di portare armi a scuola visto che “potrebbero servire per difendere i bambini del Wyoming dai grizzly”. Non è una sorpresa, ma proprio per questo migliaia di donne (e per fortuna anche molti uomini) si sono messe un ridicolo Pussyhat in testa e intonando vecchi slogan, tristemente attuali, hanno tinto di rosa le strade degli Stati Uniti e del mondo. Possiamo anche trovare “vecchia” questa Women’s March, ma a è sicuramente una prima e indispensabile forma di resistenza al femminile ad una presidenza che nasconde anch’essa, dietro la maschera innovativa e popolare, la realtà di un ritorno ad un passato elitario in cui i maschi bianchi, ricchi e razzisti sono gli unici che possono arrivare al potere. Del resto come ha scritto la giornalista Bia Sarasini quello di Washington non solo “era un bel colpo d’occhio, dall’alto, tutto quel rosa, anche se magari il colore ti fa venire l’orticaria”, ma “Come gli ombrelli in Polonia, nell’imponente manifestazione contro il governo polacco dell’ottobre scorso e come le manifestazione contro la violenza in Italia, il 26 novembre, a guidare le mobilitazioni sociali, oggi, sono le donne”.

Alessandro Graziadei

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