domenica 12 marzo 2017

Sri Lanka: quale riconciliazione?

Il 16 maggio 2009 lo Sri Lanka metteva la parola fine ad una guerra civile che aveva insanguinato l’isola dal 1983, causando circa 100.000 morti tra civili e militari. Un passo importante, che il Governo della maggioranza singalese ha gestito applicando una sorta di “impunità dei vincitori”, che non ha aiutato il lento processo di riconciliazione con la minoranza indipendentista Tamil. Nel 2014 il Paese ha dovuto fare i conti con la ri-esplosione del conflitto quando per alcuni mesi lo scontro nel Paese da etnico si era fatto religioso, grazie alla facile strumentalizzazione delle differenze tra la maggioranza buddista e la minoranza mussulmana, che in buona parte ricalcano ancora oggi le vecchie divisioni etniche tra singalesi e tamil. Ma le tensioni, anche grazie alla comunità buddista moderata, erano rientrate e il presidente dello Sri Lanka Maithripala Sirisena, pochi giorni dopo la sua elezione avvenuta nel gennaio del 2015, aveva avviato un riavvicinamento tra le parti dichiarando che “Tutti dovrebbero lavorare in piena fratellanza, a prescindere dalle proprie differenze. Quando si tratta di risolvere dei problemi, non c’è differenza etnica, religiosa o geografica. Il governo è impegnato a trovare soluzioni alle questioni che stanno a cuore al suo popolo”.

Ma queste soluzioni sono state poi trovate? Non tutte. Dopo la scomparsa ancora senza una spiegazione ufficiale di migliaia di giovani tamil che avevano volontariamente deposto le armi consegnandosi all'esercito governativo e che si teme siano stati uccisi in omicidi extra-giudiziali dalle forze militari di Colombo, la questione terriera è da tempo una delle priorità del governo dello Sri Lanka, che già nel 2009 si era impegnato a restituire in tempi brevi ai loro legittimi proprietari tamil le terre espropriate dai militari singalesi per ragioni di “sicurezza”. Durante la trentennale guerra civile che ha contrapposto esercito e ribelli tamil, infatti, molti terreni nel nord dell’isola sono stati prima sequestrati a scopi difensivi e poi essere ceduti ad aziende che ancora oggi li utilizzano per finalità “agricole” e “turistiche. È il caso di Sinharathnam Mahalingam, 68 anni, il cui terreno è stato requisito dai militari durante la guerra: “Dal 1996 vivo in casa di amici. La guerra è finita da otto anni, chiediamo che almeno ci venga restituito ciò che è nostro”. Per questo lo scorso 22 febbraio migliaia di sfollati tamil, da otto anni accampati nei campi profughi nella penisola di Jaffna, sono scesi in piazza chiedono indietro le loro terre al grido di “Vogliamo le nostre terre”, “Stop agli espropri forzati” e “Ridateci i terreni occupati dall’esercito”.

L’evento organizzato dalla People’s Alliance for Right to Land (Parl), in collaborazione con il National Fisheries Solidarity Movement (Nafso) ha visto la partecipazione di centinaia di persone di etnia tamil spesso ridotte in condizioni di estrema povertà proprio da questi espropri. Per Inpam Muraly, uno dei leader della protesta, “È ingiusto che queste persone siano ancora costrette a vivere come profughi dopo otto anni dalla fine del conflitto. Non c’è alcun motivo che giustifichi la perdurante occupazione da parte dei militari. Meritiamo giustizia”. Dello stesso avviso è stata anche K.P. Somalatha, coordinatrice dell’Uva Wellassa Farmer Women Organization (Uwfwo), che ha ricordato che la manifestazione è nata con un intento pacifico e non divisivo: “Siamo qui per costruire la solidarietà tra il nord e il sud del Paese e nel frattempo lottiamo insieme per le terre. Siamo tutti vittime degli espropri. La lotta degli sfollati è anche la nostra lotta”. Antony Anthony JesudasanFrancis Raajan, entrambi membri del Nafso, hanno infine chiesto al Governo di Colombo: “Un semplice gesto, che restituisca fiducia alle vittime della guerra ricollocando i profughi nelle loro terre e costruendo strutture adeguate per permettere il loro rapido reinsediamento”.

Ma la mancata restituzione della terra non è la sola forma di discriminazione che la minoranza tamil continua a subire. Per Chandrika Bandaranaike Kumaratunga, ex presidente dello Sri Lanka, unica donna ad aver ricoperto tale carica e attuale presidente dell’Ufficio per l’unità nazionale e la riconciliazione del Sri Lanka, “esiste un diffuso sistema di sfruttamento che colpisce in particolare le donne tamil”. Nel nord e nell’est dell’isola vivono oltre 80mila donne rimaste senza marito e con figli a carico dopo la fine della guerra civile, “tante di loro non hanno i mezzi per sopravvivere, perciò è più facile che diventino vittime di sfruttamento” e “più vulnerabili alla richiesta di favori sessuali da parte dei militari in cambio dello sbrigo di pratiche amministrative”. A quanto pare per l’ex presidente Kumaratunga “Le vedove vengono molestate persino se si recano negli uffici per firmare dei documenti. Sappiamo di numerosi casi nei quali il personale militare ha chiesto favori sessuali”. Così “Dopo essere sopravvissute agli orrori della guerra di secessione - ha detto la Kumaratunga - esse ora sono vittime di un diffuso sistema di sfruttamento sessuale da parte di funzionari delle proprie comunità e dell’esercito”. 

L’esercito ha respinto ogni accusa con una dichiarazione in cui definisce le dichiarazioni della Kumaratunga “prive di fondamento, dato che nessun funzionario dell’esercito è impiegato nell’amministrazione civile”. Ad oggi però, se è vero che non esiste una casistica ufficiale delle violenze perpetrate dall’esercito, è soprattutto perché la maggior parte dei casi non vengono denunciati. Dalla fine del conflitto sono stati numerosi gli scandali che hanno interessato membri dell’esercito tanto da costringere più volte Colombo a severe prese di posizione nei confronti di alcuni dei suoi militari. Kumaratunga, che ha vissuto in prima persona il dolore della perdita del padre Solomon Bandaranaike, primo ministro assassinato nel 1959 e del marito ucciso davanti ai suoi occhi nel 1988, ha coraggiosamente sollevato il velo su una violenza di genere molto diffusa nell’isola e che purtroppo va ben oltre il conflitto etnico o religioso dello Sri Lanka

Alessandro Graziadei

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