L'importanza e la centralità della sostenibilità ambientale e sociale nell'opinione pubblica thailandese è aumentata sensibilmente nel corso dell'ultimo decennio e le aree prossime ai confini settentrionali del Paese, abitate da una varietà di etnie e popoli indigeni, sono diventate un laboratorio di iniziative produttive sostenibili per migliorare la qualità della vita ed evitare la migrazione, anche grazie alle attività avviate dalla famiglia reale thailandese che si è impegnata per convertire le piantagioni di oppio in produzioni altrettanto remunerative, ma di minore impatto sociale, come caffè, fiori, tapioca e gelso. Tuttavia questo impegno deve fare i conti con gli interessi dei monopoli economici energetici responsabili di danni ambientali che hanno origine anche al di fuori del territorio thailandese. Gli esempi più attuali e problematici sono l’utilizzo dell’alto e medio corso del Mekong per lo sfruttamento idroelettrico soprattutto da parte cinese con sbarramenti e impianti nel territorio della Repubblica Popolare, in Laos e nel Myanmar settentrionale, con gravi conseguenze per la parte thailandese di questi corsi d’acqua che non vanno solo acquisendo una portata limitata o intermittente a seconda degli interessi energetici, ma vengono anche contaminati in modo diretto o indiretto, da una moltitudine di inquinanti. Negli ultimi mesi un altro caso è emerso con rilievo sui mass media thai, ed è quello delle emissioni originate in Laos dall’impianto termoelettrico dell’Hongsa Mine Mouth Power Project, situato nella provincia di Xayaboury a pochi chilometri dal confine con la provincia thailandese Nan, abitata dalla minoranza Lua.
Inaugurato nel 2015 e controllato all’80% da aziende thailandesi, questo impianto brucia annualmente 15 milioni di tonnellate di lignite per produrre energia che esportata in buona parte proprio in Thailandia. A segnalare i rischi dell'impianto è stato inizialmente un rapporto della Banca mondiale che nel 2020 indicava una crescita di cinque volte delle emissioni di anidride carbonica nell'area dall’avvio della centrale di Hongsa. Recenti indagini, inoltre, hanno dimostrato che per circa cinque mesi all’anno i venti trasportano e depositano su una vasta area della provincia Nan le emissioni dell'impianto, composte sia da diossido di azoto e diossido di zolfo, che incrementano l’acidità dei terreni favorendo l’insorgenza di malattie nelle coltivazioni essenziali come riso, caffè e gelso, sia le particelle di mercurio che causano malattie da accumulo di metalli pesanti. A preoccupare oggi è soprattutto la concentrazione di mercurio, che in pochi anni è arrivato fino a 12mila volte i livelli riscontrati in un ambiente incontaminato e che per la sua tossicità ha conseguenze gravissime su tutti gli organismi viventi, compresi i Lua, che entrano in contatto con il mercurio attraverso l'aria, l'acqua e la catena alimentare. La popolazione, alla quale è stato chiesto di utilizzare con cautela l’acqua potabile, registra ogni anno un numero crescente di malattie respiratorie, soprattutto tra i più giovani, e il delicato equilibrio tra l'esigenza di sempre nuove risorse energetiche e la tutela della salute delle comunità locali sembra complicare la rapida soluzione del problema.
Eppure non è impossibile provare a coniugare sostenibilità, energia e diritti dei popoli indigeni. Nelle Filippine l’organizzazione no-profit Sibolng Agham at Teknolohiya (Sibat) un anno fa ha ricevuto il premio del Forum dei popoli indigeni, promosso dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad), perché nelle province di Abra, Apayao e Kalinga, regione della Cordillera sull'isola di Luzon, ha creato in tre anni, dal 2020 al 2022, sitemi di energia rinnovabile attraverso strutture di micro-idroelettricità, entità conosciute con l’acronimo CBRES-MHP e sviluppate su base comunitaria. Un totale di 1.684 famiglie di indigeni Igorot ora hanno accesso all'energia in aree non collegate alla rete elettrica, riuscendo così ad alimentare le scuole elementari, i centri sanitari e altre strutture comunitarie, tra cui 11 mulini per il riso, 2 mulini per il mais e 4 impianti per la spremitura della canna da zucchero. Qui i popoli indigeni locali sono stati coinvolti in maniera libera e informata dalle fasi iniziali di progettazione fino all’attuazione del progetto e i responsabili degli impianti sono ora donne, uomini, giovani e persone con disabilità, scelti dalla comunità e formati da Sibat per garantire la manutenzione e il funzionamento degli impianti idroelettrici. Per gli attivisti di Sibat “Le donne indigene e i giovani sono coinvolti anche nelle attività di costruzione e amministrazione, mentre gli anziani e le persone con disabilità fanno parte di un Consiglio di anziani che prende le decisioni più importanti e garantisce il rispetto delle tradizioni indigene. Il progetto ha permesso alle popolazioni locali di proteggere e preservare i propri fiumi e cascate, ma anche di promuovere la propria identità e cultura, facendo valere il diritto all'autodeterminazione”.
Una lezione che anche Papa Francesco, ricevendo un anno fa in udienza i partecipanti al Forum, ha elogiato, ricordando che oggi più che mai “Il contributo dei popoli indigeni è fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico”. “Dobbiamo ascoltare di più i popoli indigeni e apprendere dal loro stili di vita per comprendere fino in fondo che non possiamo continuare a depredare le risorse naturali”, aveva ricordato il pontefice: “Se davvero vogliamo prenderci cura della nostra casa comune e migliorare il pianeta in cui viviamo, sono imprescindibili cambiamenti profondi nei nostri modelli di produzione e di consumo”. Obiettivi ambiziosi, ma realizzabili, come dimostra il progetto energetico, ambientale e sociale attuato da Sibat nelle Filippine!
Alessandro Graziadei
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