Dopo la condanna ufficiale del sandblasting come tecnica di schiaritura dei jeans da parte di molti marchi internazionali del mondo della moda, la Campagna Abiti Puliti ha deciso di verificare sul campo le promesse delle imprese mandando alcuni ricercatori dell’Alternative Movement for Resources and Freedom Society (Amrf) in 7 fabbriche bengalesi per intervistare 73 lavoratori, di cui oltre la metà addetti alla sabbiatura. I risultati dell’inchiesta sono allarmanti: in nessuno dei 7 stabilimenti la sabbiatura è stata definitivamente abolita e spesso viene eseguita di notte in modo da non dare nell’occhio. Non va meglio nelle fabbriche impegnate nella produzione di merchandise olimpico per Londra 2012. Un altro grande business costruito sulla pelle dei lavoratori denunciato da PlayFair 2012. Ma andiamo con ordine.
Per quanto riguarda il sandblasting si potrebbe parlare di “Deadly denim” (jeans letali) come ha fatto il rapporto di Clean Clothes Campaign, rappresentata in Italia proprio da Abiti Puliti, per denunciare l’assurdo binomio esistente tra una moda, quella dei jeans resi artificialmente rovinati e le vite dei lavoratori costretti a soddisfarla. “La situazione è molto grave - ha dichiarato Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti - al contrario di quanto sostengono pubblicamente, l’indagine ha rivelato che i più noti brand della moda non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti o a modificare i tempi e costi di produzione per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportano lavorazioni più sicure, con il risultato di continuare a incentivare l’uso, clandestino o alla luce del sole, della sabbiatura”.
Una situazione oltre modo pericolosa visto che è ormai noto da anni il rischio professionale di contrarre la silicosi per migliaia di lavoratori tessili. Alcuni degli intervistati hanno descritto tempi e modi della sabbiatura condotta in grandi stanzoni polverosi privi dei minimi requisiti di sicurezza a partire dalle mascherine per evitare l’inalazione.
Ne è prova la storia contenuta nel rapporto diffuso da Abiti Puliti di Mohammad, venticinquenne, operatore di macchina nel settore della sabbiatura meccanica. “Immerso per due anni in una fitta nebbia di polvere, il lavoratore si è visto diagnosticare (a sue spese, dato che non è prevista alcuna compensazione aziendale) un’insufficienza respiratoria”. Storia analoga è quella di Rashed, di un anno più giovane del primo e che “dopo la permanenza in stanze dove si occupava di sabbiatura meccanica per quattro anni si è ritrovato a tossire sangue al pari di Abdul, ammalatosi nel giro di due anni e ritrovatosi a tossire sabbia”.
Ne è prova la storia contenuta nel rapporto diffuso da Abiti Puliti di Mohammad, venticinquenne, operatore di macchina nel settore della sabbiatura meccanica. “Immerso per due anni in una fitta nebbia di polvere, il lavoratore si è visto diagnosticare (a sue spese, dato che non è prevista alcuna compensazione aziendale) un’insufficienza respiratoria”. Storia analoga è quella di Rashed, di un anno più giovane del primo e che “dopo la permanenza in stanze dove si occupava di sabbiatura meccanica per quattro anni si è ritrovato a tossire sangue al pari di Abdul, ammalatosi nel giro di due anni e ritrovatosi a tossire sabbia”.
I principali marchi identificati nell’indagine sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, i quali, ad eccezione di Dolce e Gabbana che ha sempre rifiutato di fornire informazioni sulle sue tecniche produttive, sostengono di avere già abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali. “I comunicati stampa ufficiali non bastano - ha continuato la Lucchetti - servono le azioni concrete che finora nessun brand ha ancora messo in campo: le ispezioni sono rare e solo in queste occasioni gli addetti vengono muniti di dispositivi di sicurezza individuale. [...] Persino l’adozione del più semplice dei mezzi preventivi, l’uso di sabbia importata a basso contenuto di silice, viene totalmente omessa nella maggior parte delle fabbriche”. È vero che in alcuni stabilimenti si è passati dalla sabbiatura manuale a quella meccanica, ma essendo effettuata in assenza di dispositivi di sicurezza adeguati, il livello di pericolosità è rimasto identico, tanto che “nessun tipo di formazione per i lavoratori e, soprattutto, per i medici, è stata realizzata, precludendo la possibilità di cure tempestive in caso di malattia” ha concludo la Lucchetti che ricorda anche “esempi evidenti di conflitti di interesse di aziende di abbigliamento facenti parte di gruppi che controllano organi di informazione e strutture sanitarie”.
Per Abiti Puliti occorre che l’Organizzazione internazionale del Lavoro e l’Organizzazione Mondiale della Sanità “inseriscano la filiera del jeans nei programmi volti a sradicare la silicosi a livello mondiale, istituiscano un programma specifico per il Bangladesh con indagini volte a cancellare definitivamente questo tipo di lavorazione anche all’interno dei confini europei” e nel contempo i marchi “dovrebbero dimostrare che producono capi in tessuto denim senza far ricorso a nessun tipo di sabbiatura attraverso test specifici che finora nessuno di loro ha ancora effettuato”.
Vincerà il busniness o la salute? Per il momento il business la fa da padrone e non sta risparmiando neanche i lavoratori impegnati nella produzione del merchandise olimpico per i Giochi di Londra 2012. “Mentre gli atleti dedicano lunghe ore all'allenamento per battere i record del mondo nei loro rispettivi sport, lavoratori di tutto il mondo sono costretti ad una corsa al ribasso sui salari e le condizioni di lavoro. Ma nessuna medaglia sarà assegnata loro per le ore e gli sforzi da record fatti per raggiungere gli obiettivi di produzione in tempo” ha fatto sapere la campagna PlayFair 2012, un progetto che ha pubblicato il report “Giocando con i diritti dei lavoratori” (Toying with Workers' Rights .pdf) e che ha l’obiettivo di spingere gli organizzatori dei giochi di Londra, i marchi internazionali di indumenti sportivi e le ditte licenziatarie al rispetto dei diritti dei lavoratori nella corsa verso le Olimpiadi.
Almeno per quanto riguarda le realtà cinesi impegnate nella corsa a Londra 2012 e al centro dell’indagine “all'aumentare della domanda di merchandise da parte dei consumatori - ha spiegato PlayFair 2012 - corrispondono non solo orari di straordinari eccessivamente lunghi e una paga molto bassa, ma ambienti di lavoro spesso pericolosi e faticosi, con datori di lavoro che mostrano poco riguardo per gli standard lavorativi riconosciuti a livello internazionale o dalle leggi nazionali”. Per vincere la medaglia d’oro contro un sistema di sfruttamento che esiste da decenni occorre ora un’azione forte che convinca il Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici al rispetto agli standard già sanciti dal proprio codice di condotta. And the winner is... la salute e i diritti dei lavoratori.
Alessandro Graziadei
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