C’è forse una soglia passata la quale per l’omicida cambia poco uccidere un uomo o ucciderne cento? I genocidi raccontati durante questa settimana da Unimondo e in particolare quello rwandese mi fanno pensare che in alcune circostanze, una volta conosciuto il crimine e la pena, ogni passo in più non ne altera la natura e l’omicidio può talvolta finire con il degenerare in genocidio. Se non si intuisce questo semplice quanto drammatico meccanismo, non si coglie la facilità con la quale interi popoli possono cadere in questa trappola. Qualcosa di analogo, la storia del ‘900 e la sua globalizzazione, assetata di risorse e di profitto, lo ha riprodotto portando alla scomparsa molti popoli indigeni attraverso un vero e proprio genocidio. Esiste, infatti, un pericolo insito nel nostro sistema economico e culturale: “Il capitalismo coloniale/moderno è cominciato secoli fa e si è imposto nel continente americano, con l’invasione del 12 ottobre 1492. Questo ha dato inizio al saccheggio globale e ha inventato le teorie sulla razza per giustificare l’etnocidio americano, l’incursione in Africa per la tratta degli schiavi e il saccheggio di altri continenti. Questi genocidi non sono finiti e sono sostenuti ancora oggi grazie al capitale transnazionale e al sostegno militare. Questo sfruttamento e oppressione globale capitalista produce il riscaldamento globale che ci porta oggi verso il suicidio planetario” si legge nella Dichiarazione dei popoli indigeni.
Un'analisi spietata supportata dai dati. In questi ultimi 100 anni sono decine i popoli minacciati che lentamente sono scomparsi con le loro lingue e gli ultimi in ordine di tempo sembrano essere i membri di una tribù sudamericana entrata solo recentemente in contatto con il mondo esterno. A denunciarlo è stata Survival International in occasione della Giornata Mondiale della Salute, che si è celebrata il 7 aprile scorso. “Gli Ayoreo-Totobiegosode del Paraguay - ha spiegato l’ong - stanno morendo a causa di una malattia simile alla tubercolosi che non viene rilevata dagli esami medici. I membri della tribù sono costretti ad uscire dalla foresta perché gli allevatori di bestiame bruciano e radono al suolo il loro territorio”. Come è successo in passato per tantissimi popoli minacciati portati all’estinzione, l’epidemia mortale che minaccia di sterminare gradualmente tutti gli Ayoreo contattati recentemente, potrebbe avere conseguenze fatali anche per i loro parenti che si mantengono nascosti nella foresta. Gli Ayoreo “Sono gli ultimi Indiani incontattati sopravvissuti al di fuori del bacino amazzonico. Da quando sono stati costretti a uscire dalla foresta quasi tutti gli Ayoreo-Totobiegosode soffrono di rare malattie respiratorie. Come le altre tribù incontattate, gli Ayoreo non hanno difese immunitarie verso le malattie importate dall’esterno” ha spiegato Survival.
Ora se il governo del Paraguay non indagherà e prenderà provvedimenti in merito a questa misteriosa malattia, il loro futuro si prospetta cupo. “È assurdo che il governo del Paraguay non faccia nulla per proteggere il territorio degli Ayoreo” ha dichiarato Nixiwaka Yawanawá, un indiano amazzonico che si è unito a Survival per difendere i diritti indigeni. “Queste malattie stanno facendo un massacro, e si tratta di un vero crimine che si sta compiendo sotto gli occhi del mondo. Il governo deve agire subito per impedire la catastrofe”. Ma questa tragedia non sorprende. “Questa è la prova che per i popoli tribali il contatto forzato non costituisce altro che una condanna a morte - ha commentato il Direttore generale di Survival, Stephen Corry - Il governo non solo non sta facendo nulla per proteggere le vite degli Ayoreo incontattati, ma permette anche la distruzione totale della foresta del Chaco da parte degli allevatori brasiliani. Il Paraguay deve agire subito per proteggere le vite degli ultimi Indiani incontattati sopravvissuti al di fuori del bacino amazzonico.”
Ma come ha ricordato Einar Haugen “La lotta tra gruppi dominanti e gruppi dominati per il diritto a sopravvivere comprende quella che chiamo l’ecologia della lingua”. Una lingua non è un’entità che si mantiene da sola, ma è qualcosa che esiste solo laddove esiste una comunità che la parla e la trasmette. “Una comunità di persone può esistere solo in un ambiente che le permette di vivere e nel quale è possibile reperire i mezzi per la sopravvivenza. Laddove le comunità non possono prosperare, la loro lingua è in pericolo, e quando perdono i loro parlanti, le lingue muoiono” hanno ben spiegato Daniel Nettle e Suzanne Romaine in Voci del silenzio. Sulle tracce delle lingue in via di estinzione. In questo senso la diversità linguistica è un banco di prova della diversità culturale. La morte di una lingua è il sintomo di una morte culturale: con la morte di una lingua scompare un modo di vivere. “I destini delle lingue sono legati a quelli dei loro parlanti: la decadenza e la morte di una lingua si verificano come reazione alle diverse pressioni, di ordine sociale, culturale, economico e persino militare, esercitate su una comunità”.
In occasione della Giornata Internazionale della Lingua Madre 2014 dell’Unesco lo scorso 21 febbraio, l’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) ha ricordato che oggi sono oltre 600 le lingue e i dialetti in via di estinzione. Altre 1.800 lingue su oltre 6.000 lingue parlate in tutto il mondo sono ad alto rischio di estinzione. Le cause che mettono a repentaglio la sopravvivenza di una lingua/dialetto sono molteplici quasi quanto il numero di lingue esistenti. Oltre al più o meno diretto genocidio di un popolo anche la crescente mobilità delle popolazioni, la forte influenza dei mezzi di informazione, la mescolanza, l’essere ignorata dai software e dai motori di ricerca sono ragioni che possono comportare la perdita di lingue minoritarie. “In Sudamerica, per esempio, molte lingue indigene sono minacciate dalla costruzione e creazione di mega-progetti come dighe, miniere o piantagioni che, appropriandosi della terra di comunità indigene, ne mettono in fuga gli abitanti con la conseguente dispersione della comunità, della sua cultura e lingua” ha puntualizzato l’Apm.
In molti casi però “la scomparsa di una lingua è invece la conseguenza di una politica diretta a imporre una lingua sulle altre” ha spiegato Apm. Questo è il caso di Russia e Cina, dove la soppressione mirata di lingue e culture minoritarie risponde alla volontà di assimilazione a un modello unico. Delle 170 lingue parlate oggi nella Federazione Russa 131 sono considerate in pericolo, ma la perdita della lingua non solo non preoccupa le autorità russe, ma viene sistematicamente sostenuta nell'ottica di assimilazione delle minoranze come accade al Mari, parlato nella Repubblica dei Mari, alla lingua dei Šori nella Siberia meridionale o dei Circassi del Caucaso. Una situazione non diversa da quanto accade nella regione uigura dello Xinjiang nella Cina nordoccidentale che gode solo sulla carta di un sistema educativo bilingue, ma dove diversi linguisti uiguri che si battono per il diritto all'utilizzo e allo studio della propria lingua sono vittime di minacce e arresti arbitrari. "Anche in Europa le lingue in via di estinzione sono circa 120, come ad esempio il sardo, il corso o il frisone settentrionale" ha precisato l'Apm.
Ma per fortuna la tutela delle lingue minoritarie non è segnata solamente da notizie preoccupanti, ma anche da qualche sviluppo positivo. Per l’Apm “Le lingue indigene in Messico e Guatemala ad esempio stanno vivendo un’incredibile rinascita. Molte televisioni regionali trasmettono nelle lingue maya e vi sono anche produzioni di telenovelas in lingue maya”. Nel 2003 il Messico ha emanato la Legge Generale dei Diritti Linguistici dei popoli Indigeni grazie alla quale, almeno sulla carta, vengono riconosciuti i diritti individuali e collettivi di tutti coloro che parlano una delle 62 lingue indigene riconosciute come lingue nazionali e quindi parti integranti del patrimonio culturale messicano. Sempre in Messico ha riscosso molto successo anche la traduzione del browser Firefox in 30 lingue indigene, tra cui il Maya-Yucateco, il Nahuatel, lo Zapoteco e il Wixarika con un progetto che è stato ampliato anche alle lingue indigene dell’Ecuador, del Guatemala e del Salvador. “Grazie a questo moderno mezzo di comunicazione molti giovani si sentono stimolati a riprendere e far rivivere la propria lingua tradizionale” ha concluso l’Apm.
Occorre quindi continuare su questa strada e sensibilizzare l’opinione pubblica, e quindi i politici, a una maggiore attenzione verso la democrazia linguistica e la tutela dei popoli minacciati. Abbiamo, infatti, bisogno sempre più di persone consapevoli dei propri valori culturali, prima ancora che linguistici, capaci di valorizzarli, prima che questi siano compromessi per sempre. Una cura, ma non un antidoto. Hutu e tutsi, avevano una sola lingua, il kinyarwanda per quasi tutti. Eppure non è bastato. L’ostilità tra loro nacque con l’arrivo dei belgi, che favorirono la minoranza tutsi per meglio dominare la minoranza hutu introducendo fin dal 1930 la menzione obbligatoria dell’etnia nella carta di identità. Prima di allora non c’erano mai state violenza fra i due gruppi… Non posso non tornare a pensare a quanto già scritto e citato in questo articolo direttamente dalla Dichiarazione dei popoli indigeni: “Esiste un pericolo insito nel nostro sistema economico e culturale…”. Forse anche per questo, purtroppo, sì e ancora fermi alla Convenzione ONU del 1948 che riferisce il genocidio ai soli “gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi”, una formula restrittiva che non contempla quelli fondati sull’opinione politica, lo status socio-economico o il cosiddetto “genocidio culturale o linguistico”.
Alessandro Graziadei
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