sabato 21 marzo 2015

Cina: la grande muraglia digitale?

Il 1 marzo in Cina è entrata in vigore una nuova legge per l’utilizzo di internet. Le nuove regole per il web sono state rese note già lo scorso 4 febbraio dall’Autorità Statale per Internet (Cyberspace Administration of China - CAC) e prevedono precisi limiti ai contenuti veicolati con social network, siti, blog e servizi di messaggistica. L’iniziativa, a quanto pare, è partita con dei “buoni propositi”: evitare qualsiasi comunicazione, pubblicazione e diffusione di informazioni che potrebbero fomentare conflitti tra i gruppi etnici, la sovranità, l’integrità territoriale e la sicurezza nazionale cinese. Così da inizio mese è proibita la diffusione di voci e informazioni che ledono le leggi cinesi e/o la costituzione del Paese, così come è severamente proibita la diffusione di contenuti estremisti o la propaganda per le comunità religiose. Ma come tutti i limiti alla libertà di espressione in nome dell’ordine costituito, i risultati sono tutt’altro che edificanti.

Secondo l’Associazione per i Popoli Minacciati (Apm) questa nuova legge di fatto “inasprisce la censura sul web e permetterà la criminalizzazione sistematica delle minoranze etniche e religiose nel paese. Chiunque pubblichi e diffonda in rete informazioni su problemi e conflitti nelle aree di insediamento di Tibetani, Uiguri e Mongoli diventa punibile per legge”. Secondo i servizi di sicurezza cinesi fanno parte della propaganda religiosa gli scritti religiosi di musulmani e buddisti così come il materiale dei Falun Gong. Da questo mese, quindi, per l’ApmUn libero scambio di informazioni sulla situazione nello Xinjiang, in Tibet o nella Mongolia Interna non è possibile se non a rischio della propria libertà, poiché la formulazione poco precisa della nuova legge permette di criminalizzare come destabilizzante qualsiasi informazione riguardi quanto succede in questi territori. La stessa cosa vale per le questioni e gli scritti religiosi”. 

Si tratta di una situazione non nuova, perché proprio sotto il governo del capo di stato e di partito Xi Jinpin la censura di internet è aumentata ed è in costante ascesa il numero dei blogger arrestati e detenuti per cosiddetti reati di opinione. Una situazione paradossale visto che la Cina è stato il paese partner 2015 della CeBit 2015, una delle maggiori fiere per l'informatica e le tecnologie comunicative che si è chiusa ieri ad Hannover. Secondo il recente rapporto dell’Apm sui diritti umani in Cina, che si occupa specificamente della libertà di espressione in rete e nei media sociali nel paese, sono 77 i blogger, giornalisti e autori online arrestati negli ultimi 12 mesi. “La situazione peggiore è certamente quella degli Uiguri. In nessun'altra provincia della Cina le norme per l'utilizzo di internet e dei media sociali sono così restrittive come nello Xinjiang. Chi, essendo Uiguro, utilizza internet rischia l'arresto arbitrario semplicemente per l'utilizzo della rete. Anche l'acquisto di una scheda SIM per il proprio cellulare comporta, nello Xinjiang, la segnalazione alle forze di polizia”. Il risultato per il rapporto dell'Amp è che le nuove ordinanze e un'interpretazione molto “ampia” dell'articolo 293 del codice penale facilitano la criminalizzazione degli utenti di internet e la creazione di uno stato di controllo totale.

Ancora prima di queste nuove misure restrittive tra il 1 aprile e il 12 maggio del 2014, le autorità cinesi avevano arrestato 232 Uiguri colpevoli di aver espresso posizioni critiche in Internet sulle violenze e sulle violazioni dei diritti umani. Nel distretto di Kucha (regione di Aksu) il 20 maggio 2014 sono stati fermati decine di manifestanti tra cui ragazze e signore, che dimostravano a favore del diritto per le donne musulmane di poter indossare il velo in pubblico. Il 21 maggio scorso 39 Uiguri sono stati condannati per motivi politici fino a 15 anni di carcere. A fare le spese di questo giro di vite è stato, tra gli altri, anche il professore di economia uiguro Ilham Tohti condannato all'ergastolo con l’accusa di istigazione al separatismo assieme a sette dei suoi studenti, condannati a pene detentive dai tre agli otto anni. Nei suoi articoli online, scritti in cinese han, Toht si era espresso a favore di una maggiore comprensione tra Uiguri e i cinesi Han, tentando di gettare un ponte tra le diverse culture ed etnie presenti in Cina. Secondo gli attivisti dell’Apm “Le autorità cinesi non distinguono ancora tra la protesta pacifica degli Uiguri che chiedono il rispetto dei loro diritti costituzionalmente garantiti e la violenza cieca degli estremisti che hanno perso ogni speranza in una soluzione pacifica del conflitto”. 

Ma una sorte non diversa a quella di Tohti è toccata questo febbraio anche al tibetano Kalsang Tsering, condannato a due anni e mezzo di carcere per aver inviato informazioni ad amici all’estero e alla giornalista Gao Yu, che dovrà difendersi in tribunale dall’accusa di aver inviato a mezzi d'informazione stranieri dei documenti segreti riguardanti il partito comunista cinese. E non potrebbe finire qui! Per l’Apm, infatti, “Le violazioni della libertà di internet non si limitano solo alla Cina stessa. L’apparato di controllo cinese è responsabile di attacchi hacker a siti di organizzazioni non governative straniere e Pechino ha avviato una campagna internazionale per il diritto di ogni stato a controllare e censurare la rete minacciando in tal modo la libertà di espressione in rete in tutto il mondo”. Eppure non tutto in Cina sembra muoversi “contro” la nostra presunta superiorità culturale libertaria occidentale. Come ricordato in un nostro recente articoloper quando sia insolito citarli preferendo puntare il dito su ciò che non va, i cambiamenti a Pechino ci sono, vengono discussi e presi in considerazione”. Nel corso dell’ultimo Plenum di Partito lo scorso ottobre si è parlato, infatti, di “stato di diritto”, “un concetto integrato nel testo costituzionale – dunque nell’ideologia di governo – nel 1999, ma che per la prima volta ha avuto un’attenzione che è andata oltre la mera dialettica filosofica”. Un passo coraggioso e che fa ben sperare fatto da un grande Paese che sta cercando un’identità attraverso un rinascimento, pur restando ancorato alla propria millenaria tradizione.

Alessandro Graziadei

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