domenica 1 marzo 2015

Foreste e deforestazione: a che punto siamo?

Nel settembre del 2014, numerosi governi, multinazionali, comunità indigene e associazioni hanno firmato nella Grande Mela la Dichiarazione di New York. Il documento li impegna a mettere fine alla deforestazione, anche quella legata alla produzione agricola, entro il 2020. Si tratta di una dichiarazione che riflette il precedente impegno del Consumer Goods Forum, un’alleanza di 400 imprese per un fatturato totale di tre miliardi di dollari che avevano già deciso di organizzarsi per ottenere una catena di rifornimenti a zero deforestazione sempre entro il 2020. Ma a che punto siamo?

L’associazione ambientalista canadese Canopy ha sviluppato una metodologia rigorosa per identificare e classificare i potenziali impatti sulle foreste attraverso Foreste 500una speciale classifica (che l'ong si è impegnata a rinnovare di anno in anno fino al 2020) che valuta 50 amministrazioni pubbliche (25 paesi con foreste, 15 paesi importatori, 10 amministrazioni locali forestali); 250 aziende attive in diverse fasi della catena di approvvigionamento; 150 investitori e finanziatori e altri 50 grandi mediatori commerciali. I risultati? Nonostante i ripetuti fenomeni di deforestazione Brasile, Colombia e Perù, assieme a paesi importatori come Germania e Olanda sono per Canopy tra le “realtà pubbliche più virtuose”, decisamente conservative rispetto ai fanalini di coda Russia, Tailandia e Venezuela. Anche tra le aziende non mancano le sorprese con Danone e Nestlé (ultimamente impegnata a rifarsi un’immagine sostenibile) che svettano tra le aziende maggiormente impegnate nel combattere la deforestazione, con policy forestali attive e un reporting trasparente. Non sfigurano neanche Kao Corp, Procter & Gamble Co, Reckitt Benckiser Group e Unilever, mentre tra i “cattivi” troviamo Kraft e Kikkoman, entrambe totalmente prive di una policy forestale, al pari della “nostra” Prada, anch’essa priva di politiche forestali sul cuoio importato, ma che almeno capace di garantire una certa trasparenza sulle proprie operazioni. 

Foreste 500 non è quindi solo un esercizio statistico, ma un vero osservatorio su governi, imprese, mediatori e istituzioni finanziarie di tutto il mondo che, insieme, se volessero, potrebbero eliminare la distruzione delle foreste tropicali. “Il sistema è semplice, anche se le metodologie adottate sono complesse” ha spiegato l’associazione ambientalista. “La deforestazione è guidata dalla produzione di una manciata di materie prime e di imprese che le utilizzano: olio di palma, di soia, carne, cuoio, legno, cellulosa e carta. Questi prodotti si muovono lungo catene di fornitura complesse, dai produttori ai commercianti, trasformatori, produttori e rivenditori e una buona metà finisce in prodotti confezionati venduti nei supermercati di tutto il mondo. Attraverso questi prodotti, siamo tutti parte dell’economia della deforestazione, a volte invisibile, ma non per questo meno dannosa”. 

In realtà molti degli articoli responsabili dell’attuale deforestazione possono benissimo essere prodotti in modo sostenibile, senza danneggiare le foreste. Ne è un esempio la carta, che tuttavia nonostante possa essere prodotta senza deforestare ed essere per questo certificata, purtroppo, per limitare i costi, continua ad avere un mercato anche se di provenienza dubbia e difficilmente tracciabile. Un esempio? Secondo un recente studio pubblicato dal centro ricerche Forest Trends in collaborazione con l’Anti Forest-Mafia Coalition indonesiana, circa un terzo del legname utilizzato dall’industria della carta in Indonesia nel 2014 proviene dall’abbattimento delle foreste pluviali o di altre fonti illegali. Secondo il rapporto, l’anno scorso, il legname di origine illegale ha superato di ben 20 milioni di metri cubi le forniture legali. Lo studio si basa sui dati del Ministero delle foreste, e sostiene che il paese non dispone di piantagioni abbastanza estese per soddisfare la capacità produttiva dell’industria. 

Lo studio di fatto dimostra l’inefficacia della moratoria sancita dal Governo sui permessi di nuove concessioni. Il nuovo presidente indonesiano Joko Widodo, insediatosi lo scorso ottobre, ha promesso di ripristinare le foreste degradate, ma per il momento ha unificato i ministeri delle foreste e dell'ambiente e ha sciolto l'agenzia incaricata di ridurre le emissioni causate dalla deforestazione. Anche per volontà politica, quindi, secondo il rapporto, “il gap nella fornitura di legno legale crescerà di almeno 10 milioni di metri cubi se le cartiere decideranno di operare a piena capacità”, e rischia aumentare fino a 44 milioni di metri cubi se saranno costruite le nuove cartiere in programma, tra cui la nuova cartiera da due milioni di tonnellate annue che la APP (azienda non proprio trasparente) vorrebbe costruire a Sumatra. 

Se abbiamo a cuore la foresta “L’Indonesia deve estendere la moratoria sulle nuove concessioni ed evitare un aumento della capacità produttiva delle cartiere” ha spiegato Michael Jenkins, di Forest Trends. Tra il 2000 e il 2012 l’Indonesia ha già perso oltre 6 milioni di ettari delle sue foreste primarie, un’area delle dimensioni dell’Inghilterra. La deforestazione, il drenaggio delle torbiere e l’impiego del fuoco per eliminare la boscaglia sono una delle principali cause delle alte emissioni di gas serra dell’Indonesia, divenuto ormai il quarto paese produttore di CO2 al mondo.  Un problema mondiale. Anche per questo la Dichiarazione di New York e il rispetto dei suoi presupposti sono fondamentali per il futuro di tutto il pianeta.

Alessandro Graziadei

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