La notizia non dovrebbe stupirci. Chernobyl ci ha insegnato che il Cesio-137 ha una emivita di circa 30 anni e continua a rappresentare un rischio per l’ambiente e la salute umana per centinaia di anni. Quindi sapere (proprio nei giorni nei quali si ricorda il tragico anniversario dello sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki) dal recente rapporto “Atomic Depths: An assessment of freshwater and marine sediment contamination” di Greenpeace Iternational, che “La contaminazione radioattiva nei fondali marini al largo della costa di Fukushima è centinaia di volte al di sopra dei livelli antecedenti il 2011” non ci sorprende. Già nell’aprile del 2011 ad un mese dal terremoto era chiaro che oltre al drammatico numero dei morti travolti dallo Tsunami che aveva colpito il Giappone, le conseguenze del disastro nucleare di Fukushima erano destinate a lasciare segni indelebili e apparentemente invisibili, non solo attorno alla centrale Fukushima Daiichi, ma anche nell’Oceano pacifico, ben oltre il limite delle acque territoriali giapponesi. Ma una cosa sicuramente stupisce, ed è che “la contaminazione nei fiumi locali è fino a 200 volte superiore rispetto a quella dei sedimenti oceanici”.
Dal 21 febbraio all’11 marzo di quest’anno il “Radiation survey team” imbracato a bordo della nave da ricerca Asakaze, supportata dalla Rainbow Warrior, la nave ammiraglia di Greenpeace, ha condotto un’indagine sottomarina lungo la costa di Fukushima e nei sistemi fluviali in un’ampia area attorno alla centrale interessata dal disastro di 5 anni fa, raccogliendo molti campioni poi analizzati da un laboratorio indipendente a Tokyo. Secondo i risultati su 19 campioni di terreno prelevati in tre fiumi della regione (l’Abakuma, il Niida e l’Ota), 18 presentano indici di radioattività superiori ai mille becquerel per chilogrammo. Per avere un termine di paragone è bene sapere che il governo del Giappone indica che il livello standard di radioattività nell’acqua potabile non può superare i 10 becquerel per chilogrammo. Nel dettaglio le analisi dei prelievi fatti nel Niida, a circa 30 chilometri a nordest della centrale, dove al momento non ci sono restrizioni al reinsediamento delle persone, hanno rivelato contaminazioni altissime, con 29.800 Bq/kg per il cesio radioattivo 134 e 137. Altri campioni prelevati alla foce del fiume Abukuma, nella prefettura di Miyagi, 90 chilometri a nord del cadavere nucleare della centrale, hanno rivelato livelli pari a 6.500 Bq/kg.
Ai Kashiwagi, energy campaigner di Greenpeace Japan, ha spiegato che “I livelli estremamente elevati di radioattività che abbiamo trovato lungo i sistemi fluviali evidenziano l’enormità e la longevità sia della contaminazione ambientale, che dei rischi per la salute pubblica derivanti dal disastro di Fukushima. Questi campioni fluviali sono stati presi in zone in cui il governo Abe sta affermando che per le persone è sicuro a vivere. Ma i risultati dimostrano che non non è possibile un ritorno alla normalità dopo questa catastrofe nucleare”. La situazione, come anticipavamo, è migliore sul fondale marino davanti alla centrale dove sono stati trovati e analizzati campioni che arrivano a 120 Bq/kg, rispetto ai 0,3 Bq/kg registrati prima dello Tsunami dell’11 marzo 2011. Come era prevedibile purtroppo per quanto “bassi” i livelli di contaminazione trovati 60 km a sud della centrale nucleare sono quasi uguali a quelli che si trovano a 4 km da Fukushima Daichi. Per Kendra Ulrich, senior global energy campaigner di Greenpeace Japan, che “I livelli di radiazione nei sedimenti al largo della costa di Fukushima siano più bassi rispetto alla contaminazione del terreno è quello che ci aspettavamo ed è in linea con altre ricerche. La vastità dell’Oceano Pacifico, insieme a forti e complesse correnti, fa sì che il più grande singolo rilascio di radioattività nell’ambiente marino abbia portato alla dispersione della contaminazione”.
Nel complesso l'indagine basta a Greenpeace Japan per sostenere che “la previsione del Governo di eliminare l’ordinanza di evacuazione dalle aree contaminate entro il marzo 2017 rappresenta un rischio inutile e dannoso”. Per gli ambientalisti giapponesi “Le vaste distese di foreste e di sistemi di acqua dolce contaminati conserveranno una fonte di radioattività per il prossimo futuro, in quanto questi ecosistemi non possono semplicemente essere decontaminati”. “La comunità scientifica deve ricevere tutto il sostegno necessario per continuare la ricerca sugli impatti di questo disastro - ha concluso Ulrich - Oltre alla contaminazione in atto nelle foreste e nei fiumi, la grande quantità di radioattività in loco, presso l’impianto nucleare distrutto, rimane una delle più grandi minacce nucleari per le comunità di Fukushima e dell’Oceano Pacifico intero”.
Così mentre le radiazioni non fanno più notizia, le tonnellate di acqua altamente contaminata si aggiungono alla sfida senza precedenti di dover gestire tre nuclei di reattori fusi. Esistono quindi “minacce presenti e future, che sono principalmente i continui sversamenti di acqua radioattiva dalla stessa centrale” e il progressivo ampliamento della contaminazione nel suolo della regione attraverso “i fiumi e gli estuari costieri“, ha concluso la ong. Il rapporto di Greenpeace uscito il 22 di luglio giunge solo pochi giorni dopo che la Tepco, la compagnia che gestisce la centrale, ha ammesso per la prima volta che il suo sistema per tenere sotto controllo le falde acquifere al di sotto dei reattori, non è in grado di contenere il flusso al 100%. Curioso tempismo.
Alessandro Graziadei
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