In Mongolia la pastorizia è stata per secoli la principale fonte di reddito del Paese, contribuendo in maniera significativa alla sua crescita economica. Il numero di capi di bestiame è arrivato a toccare i 66 milioni, a fronte di una popolazione di tre milioni di persone, dove circa il 40% è nomade e vive d’allevamento. In questi ultimi due decenni, anche se il prodotto interno lordo è triplicato grazie all’espansione del settore minerario e dell’industria estrattiva, l’allevamento costituisce ancora circa il 15% del Pil nazionale. Eppure come è emerso in giugno, in occasione dell’incontro della Global Agenda for Sustainable Livestock (Gasl) che ha ospitato nel paese asiatico 120 esperti da 34 paesi di tutto il mondo, "negli ultimi anni la qualità e la produttività del settore zootecnico sono calate, sia per ragioni legate al cambiamento climatico, sia a causa dell’invecchiamento del bestiame". Due fenomeni che hanno messo in crisi il settore a livello mondiale e che in Mongolia hanno avuto pesanti ripercussioni su quel 40% della popolazione che ancora vive esclusivamente di allevamento.
Per far fronte alla crisi è stato da poco varato un piano di sviluppo che mira a valorizzare e tutelare l’allevatore e il bestiame, con un occhio di riguardo per la biodiversità, la fauna locale e la salvaguardia del paesaggio. Per il Governo di Ulan Bator, inoltre, “una maggiore comunicazione e interazione tra il mondo della pastorizia e quello dell’industria è fondamentale”. Per questo nel piano è prevista la realizzazione di 100 nuovi impianti, dislocati in 21 differenti aree del paese, ritenuti indispensabili per la lavorazione di carne, latte e lana cashmere. In questo modo si spera di incentivare la filiera produttiva e mettere in comunicazione diretta i pastori con il mercato delle grandi città, non solo mongole. Secondo Munkhnasan Tsevegmed, il ministro dell’alimentazione, dell’agricoltura e dell’industria leggera “Con questo piano di sviluppo stiamo lavorando per migliorare l'accesso ai mercati, sia nazionali che internazionali”, grazie anche al sostegno dell’Onu “che sta contribuendo ad un nuovo sviluppo zootecnico della Mongolia”.
La Fao, infatti, da alcuni anni, sta lavorando per creare delle zone libere da malattie per l’allevamento del manzo e dell’agnello, favorendo così lo sviluppo di una imprenditoria rurale capace di affacciarsi su mercati come è accaduto per esempio in Namibia e Botswana, due realtà africane che hanno caratteristiche economiche e uno sviluppo del settore zootecnico simile a quello della Mongolia, e che una delegazione da Ulan Batorha ha recentemente visitato per prendere spunto dalla loro riuscita esperienza di neo-esportatori di carne verso l’Europa. Senza un rilancio dell’allevamento, per gli allevatori e i pastori mongoli le alternative non sembrano essere particolarmente allettanti. Sono migliaia quelli che negli ultimi anni hanno affrontato la crisi del settore trasferendosi nelle città ed in particolare nella capitale Ulan Bator, consapevoli del fatto che ormai più della metà del Pil della Mongolia è prodotto nella capitale ed è sempre maggiore la disparità economica e di opportunità lavorative fra aeree urbane e aree rurali.
Eppure, nonostante il lavoro nelle città non manchi, per quanto sottopagato e sempre più spesso occasionale, molti pastori mongoli stanno considerando l’eventualità di tornare sui loro passi in provincia. Il motivo? Il sempre più intollerabile inquinamento dell’aria, che peggiora man mano che si avvicina la stagione invernale. “Anche se si esce solo per un secondo - ha raccontato ad Asia News l’ex pastore Darii Garam, 76 anni - quando apri la porta la tua casa si riempie di fumo, i tuoi vestiti, tutto ne prende l’odore”. Darii vive nel “distretto G” della capitale, dove molti pastori si sono trasferiti negli ultimi 20 anni. Qui ogni inverno 220mila famiglie bruciano carbone per tenersi caldo e quando questo combustibile fossile è troppo caro per le finanze familiari, bruciano gomme e altri rifiuti. Il risultato è una visibilità così ridotta che due persone che camminano mano nella mano non riescono quasi a vedersi. Per questo motivo, ogni inverno gli ospedali si riempiono e migliaia di bambini e anziani si ammalano soprattutto di patologie legate alle vie respiratorie. Lo scorso inverno 15mila manifestanti hanno protestato contro un livello di inquinamento con una concentrazione di particelle pm 2.5 di 3,320 microgrammi per metro cubo, una cifra 133 volte superiore a quella definita sicura dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La capitale mongola con strutture abitative adatte ad ospitare circa mezzo milione di persone, al momento conta un milione e mezzo di persone, quasi la metà dell’intera popolazione del Paese. Per combattere l’inquinamento ambientale il governo ha cercato prima di limitare l’immigrazione, e solo adesso prova a contrastare la netta diseguaglianza tra chi vive in città e chi vive in campagna. L’urgenza oggi è sviluppare le provincie e favorire la creazione di lavoro dove un gran numero di pastori farebbe volentieri ritorno se fossero certi di trovare di che vivere. Intanto da almeno 4 anni la tendenza si è invertita e dal 2014, per la prima volta, il numero delle emigrazioni dalla capitale ha superato le immigrazioni. “Volevo di più per i miei figli, ma l’aria è insostenibile” ha concluso Garam, ed è forse ora anche per lui di tornare a casa, sperando nel successo del nuovo piano di sviluppo dell’allevamento voluto dal Governo.
Alessandro Graziadei
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