Da quando ne avevamo parlato, ancora nel 2015, poco o nulla sembra essere cambiato. Secondo Amnesty International e il rapporto “Reality Check. The state of migrant workers’ rights with less than four years to go until the Qatar 2022 World Cup” pubblicato dalla ong ad inizio mese, a dispetto “delle riforme annunciate” dall’emirato, le condizioni di vita e di lavoro in Qatar per centinaia di migliaia di migranti “restano assai difficili”. Il Paese rischia così di non mantenere fede alle promesse fatte nel recente passato per un miglioramento delle condizioni di lavoro del milione e seicentomila lavoratori stranieri, circa il 60% della popolazione, impegnati per lo più nei cantieri dei mondiali di calcio qatarioti del 2022 e al momento ancora senza alcun diritto di cittadinanza. Come ha ricordato Stephen Cockburn, vice-direttore del programma Temi Globali di Amnesty, “resta poco tempo alle autorità di Doha per lasciare un’eredità positiva”, mettendo fine “agli abusi e alle sofferenze inflitte ogni giorno ai lavoratori migranti”. Per farlo però è necessario predisporre “un sistema di lavoro” capace di contrastare “sfruttamento e miseria”.
In Qatar, nazione da mesi al centro di una controversia politica, diplomatica ed economica con gli altri Paesi del Golfo, vi sono oggi tra i 1,5 e i 2 milioni di lavoratori migranti. Si tratta per lo più di immigrati asiatici, impiegati nel settore dei lavori domestici e dell’edilizia, in particolare nei lavori di costruzione degli stadi e delle infrastrutture indispensabili per permettere al Qatar di ospitare i mondiali del 2022. Un settore che getta più di un’ombra su Doha e sulla sua capacità di tutelare anche i più elementari diritti economici, sociali e culturali dei lavoratori migranti, per non parlare dei diritti civili. Per Amnesty è anzitutto indispensabile una abolizione completa del sistema di “sponsor” detto Kafala, che continua a legare i lavoratori a imprenditori e affaristi privi di scrupoli per un lungo periodo di tempo. Negli ultimi due anni, grazie alla firma nel novembre 2017 di un accordo con l'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) per rivedere le leggi del Qatar e porle in linea con gli standard internazionali, sono state introdotte alcune importanti riforme, come la previsione di un salario minimo temporaneo, l’istituzione di comitati per la risoluzione delle controversie lavorative e la creazione di un fondo assicurativo. Tuttavia, per Cockburn “resta ancora alto il rischio di lavoro forzato sotto ricatto, permangono delle limitazioni agli spostamenti insieme a frequenti violazioni dei diritti umani”.
“Nel rapporto abbiamo esaminato lo stato d’attuazione del tanto decantato processo di riforme in atto in Qatar - ha spiegato la ong- quanto abbiamo concluso è che le autorità locali devono fare molto di più per rispettare e proteggere in pieno i diritti di circa due milioni di lavoratori migranti”. Emblematico è il caso emerso a settembre del 2018 con le vittime della Mercury MENA, un’azienda ingegneristica impegnata nella costruzione delle infrastrutture per i mondiali. Per Amnesty l’azienda ha tratto vantaggio dal sistema dello “sponsor” per sfruttare decine di lavoratori migranti e non ha versato migliaia di dollari in stipendi e contributi pensionistici, mandando in rovina numerosi lavoratori migranti provenienti dall’Asia. A seguito delle indagini di Amesty era emerso che già nel 2017 per 34 ex lavoratori nepalesi della Mercury Mena, la blanda normativa sul lavoro in vigore in Nepal e la Kafala del Qatar avevano contribuito al loro sfruttamento. Le agenzie di reclutamento al servizio della Mercury MENA hanno, infatti, illegalmente chiesto ingenti versamenti ai lavoratori, che sono stati così costretti a chiedere prestiti ad elevato interesse, contraendo debiti per saldare i quali si sono rassegnati a lavorare in condizioni di sfruttamento e talvolta a vendere le loro terre o ritirare i figli da scuola.
È chiaro che con il sistema della Kafala ancora in vigore, nonostante le parziali riforme, i lavoratori ancora oggi sono legati ai debiti contratti e non possono lasciare il paese o cambiare occupazione senza il permesso dei loro datori di lavoro. In caso contrario rischiano di incorrere nel reato di “clandestinità” e di vedersi confiscare il passaporto. Tutto questo accade in un Paese dove il salario minimo temporaneo di un operaio è appena poco superiore ai 200 dollari al mese con orari massacranti e condizioni abitative spesso inumane. I nuovi tribunali istituiti per esaminare le controversie sul lavoro, tra cui il mancato versamento dello stipendio, sono sommersi dalle denunce, col risultato che centinaia di lavoratori migranti sono già tornati a casa senza risarcimento, e senza giustizia. Intanto la possibilità di un'inchiesta ufficiale da parte dell'Ilo, affinché il Qatar si adegui agli standard internazionali in vista dell'organizzazione dei mondiali di calcio del 2022 è sempre più plausibile. La dead-line è stata fissata al prossimo novembre quando l’agenzia del lavoro delle Nazioni Unite potrebbe decidere di verificare direttamente i risultati delle riforme e, in particolare, l’effettivo superamento della Kafala.
La decisione dell'Ilo, che è stata accolta con favore dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (Ituc) e dalle organizzazioni della società civile, fra cui Amnesty International, è stata resa nota in concomitanza con le prime ispezioni del Sindacato Mondiale delle Costruzioni (Bwi) nei siti considerati più a rischio. E la FIFA che fa? Niente di “troppo compromettente” visto che il Mondiale di Qatar 2022 è un business da miliardi di dollari, per le televisioni e per gli sponsor, alcuni dei quali hanno però preso posizione. Visa, per esempio, storico partner commerciale della FIFA, pochi giorni fa ha rilasciato un comunicato in cui si è detta “sconcertata per le notizie che provengono dal Qatar” e ha chiesto alla Fifa “di intervenire con urgenza”. Una buona notizia certo, anche se per ora non si è sfilata dall’organizzazione della manifestazione mondiale ed è difficile pensare che possa farlo in futuro. Gli chiavi del pallone, del resto, non sono solo gli operai emigrati in Qatar in cerca di lavoro!
Alessandro Graziadei
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