domenica 22 settembre 2019

Abbiamo finito il verde…

"Quando non ho più blu, metto del rosso" diceva il grande Pablo Picasso. Peccato che il mondo non sia una tela e che il suo destino non sia in mano a lungimiranti artisti. Forse anche per questo abbiamo finito il verde e non sembra possibile avere "alternative cromatiche" altrettanto valide per il nostro ecosistemaLa vegetazione del pianeta, infatti, ha smesso di crescere, probabilmente a causa del calo dell’umidità dovuto al cambiamento climatico e il risultato è che il mondo sta progressivamente diventando meno verde.  È quanto emerge da uno studio apparso su Science Advances lo scorso mese. Realizzato partendo da osservazioni satellitari, secondo il team internazionale di scienziati guidato dai principali luminari cinesi in materia, “la crescita della vegetazione in tutto il mondo si è arrestata circa 20 anni fa, e adesso sembra progressivamente diminuire”. Ovviamente il riscaldamento e la riduzione dei ghiacci rende più verde aree un tempo “bianche” e lo stesso vale per altre aree del pianeta, ma complessivamente la vegetazione del pianeta si sta riducendo e secondo gli esperti climatici il declino è associato al deficit di pressione del vapore acqueo, ossia il rapporto tra la quantità di umidità disciolta nell’aria e l’umidità massima che l’aria può trattenere. È quello che gli esperti chiamano “siccità atmosferica” e sta portando oltre la metà delle foreste mondiali a sperimentare una diminuzione della crescita di tutte le piante e a rivelare una progressiva tendenza all’essiccazione.

Stando a questa ricerca i modelli climatici dovrebbero ritenere sempre più probabile un aumento del deficit di pressione del vapore, man mano che il mondo si surriscalda. Una tendenza che in futuro per gli autori dello studio “potrebbe avere un impatto decisamente negativo sulla vegetazione”. In realtà questo non è il primo studio che documenta il declino globale della vegetazione, tanto che già nel 2010 era apparsa sulla rivista Science una ricerca che dimostrava come l’”influsso verde” del carbonio fosse di breve portata e poteva essere progressivamente alterato dal calo dell’umidità. Per lungo tempo, infatti, la lobby petrolifera ha sostenuto che l’aumento di carbonio nell’atmosfera dovuto al crescente utilizzo di combustibili fossili portasse un beneficio al verde del pianeta: dato che le piante utilizzano l’anidride carbonica si ipotizzava la possibilità di aumentare la capacità di produrre cibo. In realtà, come hanno ricordato gli autori della recente ricerca, “l’anidride carbonica è solo un fattore della crescita vegetale: senza acqua le piante non crescono, mentre il cambiamento del clima porta nuovi parassiti e altri fattori di stress che limitano la crescita o uccidono la vegetazione”. 

Intanto mentre la Siberia e già bruciata, l’Amazzonia brucia e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro tenta di nascondere la catastrofe ambientale accusando le ong di aver appiccato gli incendi di proposito per mettere in difficoltà il suo governo, nascondendo il fatto che l’ondata di incendi negli stati amazzonici è in realtà dovuta alla deregolamentazione del settore agricolo e zootecnicoanche la vicina Bolivia sta vivendo incendi insolitamente estesi che hanno già distrutto 5.180 km quadrati di foresta. Il video del Dipartimento di Santa Cruz mostra decine di animali che corrono in cerca di rifugio in un paesaggio ridotto a ceppi anneriti, rami spogli e cenere, mentre le immagini satellitari della sonda Copernico hanno mostrano che gli incendi in Bolivia stanno provocando l’oscuramento dei cieli durante il giorno a migliaia di chilometri di distanza. Se l’origine dolosa ha un peso specifico enorme in questa catastrofe la “siccità atmosferica” sta contribuendo a rendere questi incendi sempre più difficili da domare e da prevenire a tutte le latitudini. Non a caso dopo la Siberia e l’Amazzonia, ora anche il bacino del Congo sta bruciando.
  
Mentre i governi di tutto il mondo, le Nazioni Unite e le associazioni ambientaliste si mobilitano per l’Amazzonia, la NASA nelle scorse settimane ha fatto sapere che Angola e Repubblica Democratica del Congo hanno subito più focolai del Brasile: 6.902 incendi il primo e 3.395 il secondo, un’enormità rispetto ai "solo" 2.127 focolai brasiliani. Se è vero come ha ricordato anche il network internazionale Salva le Foreste “che il numero di incendi non è necessariamente l’unico indicatore di una situazione di crisi poiché la maggior parte degli incendi mostrati della NASA in Africa si trovano al di fuori delle aree più preziose di foresta pluviale” è pur sempre un campanello d’allarme globale visto che “tutti i polmoni della terra stanno andando a fuoco quasi contemporaneamente”. Oggi le foreste pluviali africane, che ospitano molte specie in via di estinzione, coprono circa 3,3 milioni di chilometri quadrati in diversi paesi, tra cui la Repubblica Democratica del Congo, l'Angola, il Gabon, il Congo e il Camerun. Anche per questo Irène Wabiwa Betoko, di Greenpeace Africa si è detta “molto preoccupata che le foreste nel bacino del Congo siano sempre più esposte e minacciate dal fuoco proprio mentre aumenta il ritmo della deforestazione mondiale”. 

Anche se al momento non è ancora noto quale sia la ragione principale di questi incendi nella foresta pluviale in Africa, per la NASA, che ha gestito i dati satellitari del sistema MODIS, come in Brasile e in Bolivia "anche qui la maggior parte degli incendi è stato causato da agricoltori che in modo del tutto irresponsabile hanno tentato di utilizzare il fuoco per ripulire o ampliare i terreni agricoli". Una “catastrofe ecologica” che dalla Siberia al Congo ha dovuto fare i conti anche con l'insufficienza di mezzi per estinguere le fiamme, un lavoro definito “non redditizio”, ma in realtà fondamentale per l’ecosistema mondo, soprattutto se parliamo di incendi di grandi e grandissime proporzioni come questi, che finiscono inevitabilmente per distruggere i nostri polmoni verdi e accelerare il riscaldamento globale, con conseguenze economiche a dir poco preoccupanti.

Alessandro Graziadei

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