“Piantati da Dio, i cedri del Libano sono serviti di rifugio al tempo del Diluvio. Hanno fornito il legno dell’Arca dell’Alleanza. Questi alberi di Salomone sono serviti alla fabbricazione del Tempioe hanno costituito la materia stessa della Croce” scriveva Alphonse de Lamartine ne “La caduta d’un angelo” del 1837, celebrando così l’elemento simbolo del Libano, quell’albero di cedro impresso sia sulla moneta che sulla bandiera nazionale. E adesso? Adesso in Libano i cambiamenti climatici, il crollo dei livelli delle piogge e l’aumento delle temperature stanno mettendo a rischio quest’albero e il problema emerge con chiarezza nella ultracentenaria foresta di Tannourine nel nord del Libano dove gli alberi morti si contano ormai a centinaia. Il cambio di “clima” libanese, che secondo lo scienziato Wolfgang Cramer, “è più intenso e repentino rispetto alla media mondiale ed è cresciuto di almeno due gradi negli ultimi 30 anni”, ha fatto proliferare dalla fine degli anni ’90 la Cephalcia tannourinensis, un insetto che si ciba degli aghi dei “cedri di Dio” e che lentamente li sta decimando.
Per Nabil Nemer, entomologo e ambientalista francese responsabile della cura di Tannourine “È come se un incendio avesse spazzato via la foresta”, ma la colpa non è imputabile all’insetto, “che vive nella zona e a contatto con i cedri da secoli, ma all’aumento delle temperature che ha alterato il micro-clima e le abitudini alimentari a cui era abituata la Cephalcia”. Per contrastare questa moria di alberi il Governo libanese dal 2000 ha provato ad usare insetticidi sparsi da elicotteri, ottenendo solo preoccupanti effetti inquinanti sulle falde acquifere e insignificanti riduzioni nell’attività delle larve. Per questo dal 2012 il Governo di Beirut attraverso il ministero dell’Agricoltura ha lanciato un programma ambizioso di riforestazione che prevede l’innesto di 40 milioni di arbusti “tutti nativi del Libano”, su un’area di 70mila ettari. Ad oggi, però, sono stati piantati meno di tre milioni di alberi e il programma è già in ritardo rispetto alla scadenza fissata per il 2030.
Per Magda Bou Dagher Kharrat, co-fondatrice dell’Ong ambientalista Jouzour Lubnan “I cedri sono sopravvissuti per milioni di anni e saranno in grado di superare i cambiamenti climatici, anche se il programma di innesto governativo procede a rilento”. L'ottimismo insomma non manca, ma il destino dei cedri non è il solo allarme ecologico che agita la società civile e la politica libanese. Anche l’inquinamento del Litani, il fiume più lungo del Paese, infatti, ha raggiunto livelli preoccupanti e per il ministro libanese dell’Industria Waël Bou Faour rappresenta ormai una “catastrofe nazionale”, contro la quale “è urgente intervenire”. Per questo nelle scorse settimane è stata disposta l’ennesima chiusura temporanea di tutte le imprese senza impianti di depurazione che sorgono nei pressi del fiume in attesa di un intervento più complessivo per salvaguardare ciò che rimane dell’ecosistema del Litani. Per molto tempo il Litani è stata una delle risorse naturali più preziose del Libano capace di offrire acqua per l’agricoltura e per fare il bagno. Adesso “Il livello di inquinamento è tale - ha affermato il ministro durante una conferenza stampa - che quanti non sono colpiti oggi in modo diretto da questo inquinamento catastrofico, lo saranno in un futuro più o meno remoto”.
“Non possiamo confermare o smentire - ha spiegato Waël Bou Faour - che la contaminazione [del fiume] sia o meno la causa di malattie, anche gravi, e dei casi di cancro”, ma è necessario prestare la massima attenzione e oltre alle chiusure temporanee effettuate nel 2018 e nel 2019 “sono già stati installati impianti di depurazione in 49 fabbriche, su un totale di 63 aziende ancora fuori norma”. Secondo lo scienziato Kamal Slim, membro del Consiglio nazionale per la ricerca, la situazione resta “allarmante” e nonostante i provvedimenti dell’ultimo periodo le acque del Litani sembrano ancora uno “scarico casalingo e industriale” e il processo di degrado rischia di essere irreversibile se non saranno tagliate subito tutte le fonti inquinanti. Anche Sami Alaouiyé, dal marzo 2018 direttore del Dipartimento delle acque del Litani, parla di “progressi”, ma non sufficienti per una seria “tutela ambientale”. Una preoccupazione condivisa anche da buona parte della popolazione, almeno di quella che ha sotto gli occhi la portata della crisi ambientale del fiume e teme per la propria salute, in particolare per quella di anziani e i bambini.
Negli ultimi tempi fra i responsabili dell’inquinamento delle acque sono stati additati anche alcuni rifugiati siriani ospiti di centri di accoglienza improvvisati sorti lungo il corso del fiume. In realtà i rifiuti dei centri di accoglienza non sono i responsabili dell’emergenza. I problemi ambientali del Litani si trascinano da decenni e sembrano il risultato di cattive pratiche nel trattamento delle acque reflue oltre che dello sversamento di liquidi industriali, scarti di produzione e rifiuti solidi gettati nel fiume. Adesso per rispondere all’emergenza servirebbero nuove leggi in tema di tutela dell’ambiente e una gestione attenta dei fondi a disposizione. Per restituire vita al fiume, infatti, l’Ufficio nazionale del Litani in collaborazione con il ministero dell’Ambiente, dell’industria e dell’energia ha appena ricevuto un prestito di 55 milioni di dollari dalla Banca Mondiale con i quali dovrà cercare di migliorare i sistemi fognari, gli scarichi industriali e la gestione dei rifiuti solidi. Un’operazione non impossibile ed ormai indispensabile per restituire la vita ad un fiume altrimenti prossimo alla morte.
Alessandro Graziadei
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