La scorsa settimana le autorità indiane hanno deciso di riaprire definitivamente le scuole secondarie, i licei e le università cancellando il divieto d’ingresso nel Kashmir indiano e consentendo il ritorno dei turisti dopo poco più di due mesi di isolamento della regione. Sebbene le autorità centrali invitino gli studenti a tornare nelle classi e i turisti a riprendere le visite, il ritorno alla normalità non sarà immediato, dal momento che la vita commerciale è ancora paralizzata, i servizi internet rimangono ancora parzialmente sospesi e quelli telefonici sono attivi solo dal 14 ottobre. Ma cosa era successo in Kashmir? Il 2 agosto l’ingresso in Kashmir era stato interdetto al pubblico per motivi di sicurezza e per la minaccia non ben precisata di “attacchi terroristici”. I funzionari avevano emesso un’allerta invitando gli stranieri a interrompere subito il soggiorno e i pellegrini diretti al famoso santuario indù di Amarnath Yatra a tornare sui loro passi. Come mai? Tre giorni dopo l’allerta il governo di Delhi aveva cancellato l’articolo 370 della Costituzione, quello che garantiva uno status di semi-autonomia alla regione a maggioranza musulmana. Da quel momento la vita del Kashmir è rimasta sospesa, sono iniziati gli scontri tra esercito e militanti e nel silenzio dei media l’esistenza della popolazione è stata sconvolta dagli scontri, un prolungato coprifuoco e l’arresto di oltre 4mila attivisti.
Il territorio del Kashmir, al confine tra India e Pakistan, nonostante un lungo periodo di pace, è conteso tra i due Paesi fin dal 1947. L’articolo 370 della Costituzione indiana, garantendo uno status speciale a questo Stato ha permesso per decenni l’approvazione di leggi separate, il riconoscimento di diritti territoriali e l’uso di una bandiera differente dal resto dell’Unione, stabilizzando un Paese che per la difesa, gli affari esteri e le comunicazioni è sempre rimasto dipendente del governo centrale indiano. Secondo Delhi, che aveva inserito l’abolizione dello status speciale del Kashmir nel programma elettorale del Bjp, il partito nazionalista indù al governo, l’art. 370 era il principale ostacolo alla piena integrazione della popolazione musulmana, mentre per i critici del premier Narendra Modi la decisione intende modificare il peso politico e sociale di una popolazione che qui è a maggioranza islamica a differenza del resto del Paese che è a maggioranza indù. Il risultato è stato che per mesi lo Stato si è presentato come un territorio militarizzato: ai 500mila soldati che presidiano il confine con il Pakistan se ne sono aggiunti altri 120mila e ci sono stati migliaia di arresti in base al Public Safety Act, che consente la detenzione fino a due anni anche in assenza di pubblica accusa o processo.
Nonostante il tentativo di "normalizzare" la situazione in queste prime settimane le aule scolastiche sono rimaste parzialmente vuote, come era già successo anche dopo il 19 agosto quando le autorità indiane avevano decretato la ripresa delle lezioni nelle oltre 190 scuole dello Stato, chiuse a causa dei disordini scoppiati. I genitori hanno preferito lasciare i figli a casa per il timore di nuove violenze che negli scorsi mesi non avevano risparmiato neanche bambini e minori arrestati e feriti durante gli scontri di piazza. Prima di questo tentativo di normalizzazione molte organizzazioni della società civile avevano invitato alla calma spingendo per una risoluzione nonviolenta del conflitto come ha fatto anche Ivan Pereira, il vescovo di Jammu-Srinagar: “Come leader della Chiesa cattolica nello Stato del Kashmir desiro lanciare un appello a tutte le istituzioni e alla popolazione affinché risolvano la disputa attraverso mezzi di pace”. Secondo Pereira ora “la situazione nella regione è tornata relativamente pacifica, sono ripresi in i servizi telefonici e in parte le comunicazioni, anche se la vita commerciale è ancora bloccata e le persone continuano ad uscire per le strade dando vita a delle manifestazioni, per lo più pacifiche”.
Intanto però dai due principali ospedali della regione himalayana arriva la conferma che i militari indiani, anche in occasione di manifestazioni pacifiche, hanno continuato ad effettuare arresti e ad utilizzare “proiettili di pellet”, vietati per legge e centinaia di persone hanno riportato gravi ferite. Di fronte a tutte queste violenze, mons. Pereira spera in questo nuovo tentativo di normalizzazione e afferma che “la comunità intera, compresa quella cattolica, anche se non è molto numerosa, è molto impaurita. Sappiamo che la decisione del governo non è contro la [nostra] religione, ma ha a che fare con la politica”. Di fatto per il momento anche se le autorità hanno riaperto i confini per i turisti la regione si presenta ancora “chiusa”, come documenta anche il rapporto Kashmir Civil Disobedience presentato il 13 ottobre a Delhi dalla giornalista Revati Laul, autrice dell’indagine insieme all’accademica Brinelle Dsouza, all’attivista Shabnam Hashmi e alla psichiatra Anirudh Kala. “Saracinesche abbassate, trasporti fermi, scuole e uffici ancora in parte deserti. Uno scenario surreale anche per i viaggiatori più estremi” è per Laul il quadro di “una regione ancora sotto assedio”. Se le autorità parlano di ritorno alla normalità e annunciano per esempio l’entrata in funzione dei cellulari con abbonamento (più controllabili), “La gente di questa regione himalayana continua a reagire alla decisone di Delhi in massa e con una singolare sospensione volontaria della vita quotidiana”. Una forma di disobbedienza civile raccontata per la prima volta in questo rapporto che spiega come la popolazione da più di 60 giorni non permette che si torni alla normalità. Insomma, "tutto è chiuso" perché non sembri “tutto normale” e così nel Kashmir indiano una riconciliazione sembra ancora lontana.
Alessandro Graziadei
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