lunedì 6 luglio 2020

Gli effetti dell’“antropausa”

Esistono strategie per condividere lo spazio su questo pianeta sempre più affollato, con benefici sia per la fauna selvatica, che per l’uomo? Ha provato a rispondere a questo interrogativo un recente studio che punta a sfruttare i dati emersi anche da questo periodo di “antropausa”, dove l’attività umana, ma non quella animale, si è insolitamente ridotta per via del Covid-19. 

Tra le poche ripercussioni positive ereditate dalla pandemia di Covid-19 troviamo sicuramente il calo dell’inquinamento atmosferico, legato allo stop di molte produzioni e al traffico veicolare e la spontanea riconquista degli spazi naturali da parte di molte specie animali, per via dell’“antropausa”. Molte osservazioni aneddotiche di fauna selvatica, in particolare nelle aree metropolitane, ci suggeriscono che la natura ha reagito al blocco. Come? Ha provato a rispondere a questa domanda lo studio COVID-19 lockdown allows researchers to quantify the effects of human activity on wildlife” pubblicato il 22 giugno scorso su Nature Ecology & Evolution dai ricercatori dell’International Bio-Logging Society, in collaborazione con Movebank research platform e Max Planck-Yale Center for Biodiversity Movement and Global Change della Yale Univesity, che attraverso l’osservazione dei comportamenti animali prima, durante e dopo il lockdown ha cercato di sfruttare l’attuale pandemia da coronavirus per capire se esistono “strategie innovative per condividere lo spazio su questo pianeta sempre più affollato, con benefici sia per la fauna selvatica, che per l’uomo”. 

Per gli autori dello studio, anche se la priorità della società deve essere quella di affrontare l’immensa tragedia umana e le difficoltà causate dal Covid-19, “l’opportunità di tracciare, per la prima volta su scala veramente globale, la misura in cui la moderna mobilità umana influisce sulla fauna selvatica è un’occasione che non andava persa” e sta fornendo preziose informazioni sulle interazioni uomo-natura. Come? I ricercatori guidati dal professor Christian Rutz che ha coordinato la ricerca hanno recentemente costituito la COVID-19 Bio-Liative Initiative, un consorzio internazionale che sta ricostruendo i movimenti, il comportamento e i livelli di stress degli animali, prima, durante e dopo il lockdown, utilizzando i dati raccolti da “bio-logger”, i dispositivi elettronici applicati su diversi animali. “Questi bio-logger forniscono una miniera d’oro di informazioni sui movimenti e sul comportamento degli animali, che ora possiamo sfruttare per migliorare la nostra comprensione delle interazioni uomo-fauna selvatica, con vantaggi per tutti” ha spiegato Rutz.
Il team di studio, integrando i risultati di un’ampia varietà di animali, tra cui pesci, uccelli e mammiferi, ha individuato una cornice globale degli effetti di quello che i ricercatori hanno definito “antropausa”, cioè il periodo di mobilità umana insolitamente ridotta per via del Covid-19. Se per molti animali selvatici il Covid-19 ha permesso la “riconquista” di spazi ed opportunità e ha garantito alle specie in via di estinzione una maggior tutela dal rischio di bracconaggio, per le specie di animali che da tempo si sono abituate a vivere negli ambienti urbani, come gabbiani, ratti o scimmie, è stato più difficile “sbarcare il lunario senza un accesso costante al cibo umano”. In generale per uno degli autori dello studio, Matthias-Claudio Loretto, grazie a questa indagine “Saremo presto in grado di capire se i movimenti degli animali nei territori moderni sono influenzati principalmente dalle strutture costruite o dalla presenza degli esseri umani. Questo è sempre stato un grosso dilemma”. Questa ed altre conclusioni potrebbero ispirare proposte innovative per migliorare la coesistenza uomo-fauna selvatica e permetterci di riscoprire quanto sia importante un ambiente più tutelato per il benessere del Pianeta.

Su una cosa il team di ricerca non ha dubbi: “Nessuno sta chiedendo agli esseri umani di rimanere bloccati permanentemente - hanno assicurato i ricercatori - ma possiamo intuire che cambiamenti relativamente minori nei nostri stili di vita e per esempio nelle nostre reti di trasporto, possono avere potenzialmente benefici significativi sia per gli ecosistemi, che per gli umani”. 

Alessandro Graziadei

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