Lo scorso 22 giugno l’ambasciatore filippino a Riyadh, Adnan Alonto, ha annunciato di essere a conoscenza della presenza di 353 cadaveri di suoi concittadini, dei quali almeno 200 in attesa di essere riportati nelle Filippine: “La maggior parte - ha riferito il diplomatico - è deceduto per cause naturali. Solo una piccola parte delle vittime è da relazionare al Coronavirus”. Possibile? L’Arabia Saudita è da anni una destinazione fra le più richieste per i migranti filippini tanto che circa un milione di persone si sono trasferite nel regno saudita vivendo spesso in condizioni di grave difficoltà, vittime di abusi e vessazione da parte dei datori di lavoro. Fra i casi più frequenti, ma denunciati con difficoltà, vi sono precarietà, mancato pagamento dei salari, confisca dei passaporti, assalti di natura fisica e violenze sessuali. Mons. Ruperto Santos, vescovo di Balanga, capo della commissione per i Migranti e le persone itineranti della Conferenza episcopale filippina (Cbcp), è convinto che la maggior parte dei decessi non sia legato solo a cause naturali: c’è “qualcosa di strano” che deve essere approfondito, “Serve chiarezza sulle cause specifiche dei decessi, per avere giustizia e prevenire ulteriori perdite umane in futuro”.
A sostegno del vescovo si è schierata anche Migrante International (MI), un' alleanza di Ong impegnate nella difesa dei diritti civili dei lavoratori all’estero, che non ha non risparmiato critiche nemmeno all’ambasciata filippina a Riyadh per la gestione della vicenda: “I parenti dei nostri migranti filippini scomparsi - riferisce il portavoce di MI Francisco Buenaventura - meritano di sapere la causa della morte dei loro cari” e il governo non può lavarsene le mani parlando di “cause naturali. Servono referti medici a sostegno di questa tesi”. In tempo di pandemia globale da coronavirus, l’Arabia Saudita è stata la nazione più colpita fra quelle del Golfo, una situazione che secondo MI ha portato a discriminazioni sociali e religiose, tanto che ai lavoratori filippini che risultano positivi al Covid-19 non viene garantita l’assistenza medica necessaria: “Cristiani e musulmani - ha affermato Buenaventura - devono ricevere le stesse attenzioni. Le nostre badanti e le nostre infermiere si prendono cura dei pazienti musulmani, mentre questo non avviene per i cristiani nel regno wahhabita, dove non è ammesso altro culto al di fuori dell’islam”.
Oltre alle vittime, ci sono almeno 23mila lavoratori filippini, stando alle ultime statistiche ufficiose, che si sono appellati al governo di Manila perché li aiuti a tornare in patria, visto che a causa della pandemia di Covid-19 si trovano costretti a sopravvivere senza lavoro e senza cibo, chiedendo la carità e cercando cibo nei rifiuti a Riyadh. Se secondo l’ambasciatore Alonso quest’ultima emergenza alimentare è un mezzo “teatrale” per aumentare l'allarmismo internazionale, visto che l’assistenza alimentare è garantita a tutti,"Raccogliere nell’immondizia? Suvvia” ha recentemente dichiarato, per gli attivisti di MI il diplomatico “Può parlare così perché ha ancora un lavoro e riceve un cospicuo salario. Se vivesse per tre mesi con l’assistenza garantita, saprebbe che il raccattare cibo non è una messa in scena”. Intanto più fonti della società civile hanno segnalato che anche molti migranti, affollati in un campo di lavoro alla periferia di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti (Eau), sono ridotti in miseria, in condizioni di salute precarie e hanno promosso nelle scorse settimane una manifestazione di protesta per il mancato pagamento dei salari. Un evento eccezionale in una realtà come quella del Golfo dove la pandemia ha impresso un durissimo colpo all’economia globale, provocando la chiusura di attività, il blocco ai cantieri, la perdita del lavoro e il crollo dei salari di lavoratori troppo spesso sfruttati nel silenzio internazionale.
Come ha ricordato il vicario d’Arabia mons. Paul Hinder, “i lavoratori migranti non beneficiano dei sussidi per la disoccupazione, non riescono a inviare alle famiglie nei Paesi d’origine in Bangladesh, nelle Filippine, in Nepal il denaro necessario per sopravvivere e, stipati nei dormitori senza distanziamento né protezione, finiscono per diventare incolpevoli focolai di contagio”. “Sono due mesi - ha raccontato un migrante indiano in una delle rare occasioni di protesta, con il volto coperto - che il nostro datore di lavoro non ci paga. Pur ricevendo del cibo abbiamo molti problemi di salute […] ed è per questo che impediamo alle poche persone che ancora lo fanno, di andare al lavoro”. Più volte abbiamo ricordato su Unimondo.org che i migranti costituiscono più del 90% della forza lavoro in molte nazioni del Golfo, fra cui Arabia, Emirati e Qatar, che da anni li sfruttano anche per la realizzazione degli stadi per i mondiali qatarioti del 2022. Come abbiamo già avuto modo di scrivere nelle scorse settimane, purtroppo, non si tratta di casi isolati.
Questa crisi ha interessato anche il gigante dell’edilizia francese Altrad e la AMB-Hertel, una filiale locale negli Emirati della Altrad, la cui sede principale è a Montpellier. Secondo Le Monde, il mancato pagamento dei salari e il numero crescenti di contagi fra i lavoratori emigrati di questa azienda, in molti casi asintomatici, è una condizione “normale” che ha portato ad un aumento esponenziale dei licenziamenti anche nei ricchi Emirati. Per Andy Hall, militante pro diritti umani nepalese, “come molte multinazionali che operano nel Golfo anche la Altrad approfitta dell’assenza totale dei sindacati nella regione, per fare un po’ quello che le pare”. In Francia “pratiche di questo tipo non sono affatto consentite. Ma nel Golfo, con lavoratori meno istruiti, e fra i più vulnerabili al mondo, tutto questo viene permesso”.
Alessandro Graziadei
Nessun commento:
Posta un commento