I migranti, fino ad ora protagonisti di pericolosi viaggi della speranza e degli allarmismi della politica al punto da mettere in discussione nei mesi scorsi anche gli accordi di Scenghen, “sbarcano” in questi giorni non solo a Lampedusa, ma anche alla 68° Mostra del Cinema di Venezia. Lo fanno sia in alcune pellicole che in modo differente raccontano il dramma dell’immigrazione e i limiti di chi ne vede solo i lati negativi, che con un appello lanciato da registi, autori, produttori e attori all'opinione pubblica ed alle istituzioni: “Per contribuire con la nostra voce, oltre che con i nostri racconti - ci ha spiegato il regista Andrea Segre primo firmatario dell’appello - alla costruzione di una società meno soggetta a chiusure e derive xenofobe”.
Dopo il documentario presentato l'anno scorso su Rosarno, Segre è tornato a Venezia alle Giorante degli Autori con il suo nuovo film, Io sono Lì, la storia di una giovane cinese chiamata a gestire un bar di pescatori a Chioggia, la città natale del regista. Ancora una volta al centro del suo racconto l’immigrazione e il rapporto tra culture profondamente diverse, quella cinese e quella veneta-chioggiotta con una sceneggiatura che invita a riflettere sul “caso italiano” in materia di accoglienza e integrazione.
L'appello del mondo dello spettacolo non è infatti un monito a ricordarsi le vittime dell’immigrazione (più di 1.500 da marzo ad oggi nel solo Mediterraneo), “ma una denuncia espressamente politica - ha puntualizzato Segre - della posizione italiana nel conflitto in Libia e del trattamento riservato dalle istituzioni agli immigrati che raggiungono le coste italiane”. Gli artisti del cinema firmatari chiedono al governo l'impegno a “non replicare mai in futuro la scellerata politica dei respingimenti, attivata nel maggio 2009 con l'allora amico Gheddafi nonostante le denunce di vari organismi internazionali”.
Inoltre, nell’accorato appello di parte del mondo del cinema, si richiede l'abolizione del reato di clandestinità (già bocciato dalla Corte di Giustizia Europea) e il blocco del prolungamento a 18 mesi della detenzione nei Centri di Identificazione ed Espulsione, “la cui organizzazione e funzione va completamente ripensata essendo diventati luoghi di intollerabile sospensione dei diritti, di forte umiliazione delle dignità personali e di isolamento civile e democratico”. A tal proposito l'appello auspica che venga “revocata la circolare ministeriale che impedisce l'accesso di giornalisti ed altri osservatori nei Centri stessi” e “venga riconosciuta la piena cittadinanza italiana ai cittadini cresciuti in Italia, ma figli di stranieri”, richieste che da mesi stanno facendo anche numerose associazioni umanitarie in prima linea nell’accoglienza dei migranti.
È il caso di Amnesty International che sempre attenta alla tutela dei diritti umani dei migranti è presente anch’essa a Venezia all’interno del dibattito su cinema, libertà d'informazione e diritti umani in agenda oggi pomeriggio e con due opere patrocinate dalla Sezione Italiana di Amnesty International, entrambe in programma nella sezione "Controcampo". Nel caso di
Io sono. Storie di schiavitù di Barbara Cupisti, prodotto da Faro Film in collaborazione con Rai Cinema il racconto segue proprio le traversie del viaggio, le difficoltà dell'arrivo e la condizione di invisibilità di migranti e rifugiati giunti in Italia, spinti dalla fame, dalla miseria, dalla tortura e dalla guerra. “Sono storie di diritti negati e, insieme, di dignità mai persa e difesa fino in fondo - ha spiegato Amnesty - così come difendono l'obiettivo di migliorare il proprio futuro”.
Io sono. Storie di schiavitù di Barbara Cupisti, prodotto da Faro Film in collaborazione con Rai Cinema il racconto segue proprio le traversie del viaggio, le difficoltà dell'arrivo e la condizione di invisibilità di migranti e rifugiati giunti in Italia, spinti dalla fame, dalla miseria, dalla tortura e dalla guerra. “Sono storie di diritti negati e, insieme, di dignità mai persa e difesa fino in fondo - ha spiegato Amnesty - così come difendono l'obiettivo di migliorare il proprio futuro”.
A far parlare di migranti al lido di Venezia aveva iniziato però il regista Emanuele Crialese, altro firmatario dell’appello attraverso le immagini e la storia del suo Terraferma, accolto da una standing ovation dei giornalisti alla proiezione per la stampa di alcuni giorni fa. “Gli italiani hanno paura dello straniero - ha spiegato il regista durante la conferenza stampa di presentazione - forse perché non si sentono protetti dalla propria identità. Ma l'Italia ha bisogno di contaminazione. Ci sono paesi sviluppati grazie alla contaminazione”. Ma la consapevolezza più volte richiamata in questi mesi dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) e dal Centro Astalli che, come ha ribadito Crialese, è un “dovere umanitario internazionale ed italiano in primis fare di tutto perché chi fugge da una guerra, a cui il nostro stesso paese partecipa con l’obiettivo dichiarato di proteggere i civili, sia adeguatamente tutelato”, non sembra ancora patrimonio di una seria dialettica politica.
Crialese non ha usato mezzi termini: “Siamo davanti ad un nuovo Olocausto. Chiamiamo clandestinità una fuga, fuorilegge i migranti confinati nei centri di accoglienza come criminali [...] quando non ci spingiamo a far morire la gente in mezzo al mare”, come ha rischiato di fare l’attrice l’etiope, Timnit T, una delle protagoniste di Terraferma e realmente sopravvissuta allo sbarco del 2009 in cui morirono 73 migranti su 79. “Lavorare con Timnit T - ha raccontato la Finocchiaro tra le interpreti della pellicola - ha creato dei momenti potenti sul set, le sue battute risuonavano come verità agghiacciante”. “Credo ci sia un problema di perdita di rotta morale - ha concluso Crialese - oggi la maggior parte delle persone l'hanno persa e l'informazione e lo Stato hanno una grossa responsabilità su questo” soprattutto, ha aggiunto il regista, “quando le autorità questrano i pescherecci che hanno salvato delle persone con l'accusa di favoreggiamento all'immigrazione clandestina”.
Un argomento, quello dei media e della perdita della morale che attraversa anche la più leggera commedia Cose dell'altro mondo di Francesco Patierno il quale immagina (senza troppo sforzo) una città del Nordest, in cui gli uomini immigrati lavorano nelle fabbriche, le donne fanno le cassiere nei supermercati, le badanti le parole crociate nelle case dei borghesi e le prostitute stanno in stivali bianchi e minigonna nelle strade. Ma cosa accade quando l’industriale Diego Abatantuono che invita con arroganza da una TV locale i migranti a ritornare a casa (“Prendete il cammello e tornatevene a casa. Anzi, così capite tutti: take the camel and back home") viene improvvisamente esaudito facendo scomparire un milione d’immigrati?
Forse ce lo potrebbe raccontare Save the Children che in questi mesi ha accolto centinaia di ragazzi minorenni arrivati dal nord Africa e che quotidianamente denuncia “l'anomalia di un Paese che sfrutta la forza-lavoro straniera, ma è incapace di approntare strutture ed apparati adeguati per favorirne l'accoglienza e lo sviluppo umano”.
Accanto alle molte associazioni italiane oggi quindi anche il mondo del cinema ci racconta “la disumana e pericolosa paura dei migranti” in un interessante intreccio di poca finzione e molta realtà. Parola di Andrea Segre, Emanuele Crialese, Francesco Patierno, Guido Lombardi, Marco Paolini, Giuseppe Battiston, Valerio Mastrandrea, Elio Germano, Roberto Citran, Gaetano Di Vaio, Luca Bigazzi, Francesco Bonsembiante, Marco Tullio Giordana, Daniele Vicari, Daniele Gaglianone e delle molte altre personalità che continuano a sottoscrivere il documento in questi giorni.
Alessandro Graziadei
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