venerdì 2 dicembre 2011

Conferenza Internazionale sul Clima: ultima chiamata per la Terra?

È partita mercoledì 30 novembre a Durban in Sudafrica la diciassettesima Conferenza Internazionale sul Clima nella quale 195 Paesi fino al 9 dicembre tenteranno di superare l’impasse che da anni ostacola l’assunzione di impegni necessari per affrontare l’emergenza climatica e avviare un processo di transizione rapida verso modelli produttivi e di consumo capaci di ridurre le emissioni di gas serra. Lo snodo centrale è rappresentato dal difficile accordo per stabilizzare l’aumento della temperatura del Pianeta, Per le associazioni ambientaliste le cose da fare sono tante. Ma c’è la volontà?
“A Durban si gioca una partita cruciale, quella per mantenere viva la possibilità di giungere al più presto ad un accordo globale sul clima” ha spiegato negli scorsi giorni Legambiente nel documento La posta in gioco a Duban (.pdf). Una possibilità, oggi, ancora vincolata al rinnovo del Protocollo di Kyoto, fondamentale per sbloccare l’attuale stallo dei negoziati. “Rinnovare Kyoto - ha precisato Legambiente - significa, infatti, dare continuità all’unico strumento legalmente vincolante nell’azione globale contro i mutamenti climatici”.
Ma se Durban rappresenta l’ultima opportunità per garantire questa vitale continuità con gli accordi di Kyoto del 1997, per farlo è indispensabile raggiungere un accordo chiaro soprattutto su come rendere operativo dal 2013 il Green Climate Fund (Gcf) destinato a finanziare le azioni di riduzione delle emissioni e di adattamento ai mutamenti climatici nei paesi poveri. “Si tratta - ha precisato Legambiente - di dare certezza ai finanziamenti promessi nei precedenti vertici attraverso una roadmap che aumenti annualmente il contributo di 10 miliardi di dollari già stanziati per il 2012, sino a garantire i 100 miliardi di dollari promessi per il 2020”. Ma altrettanto importante per il meeting di Durban sarà concordare tempi e procedure su come colmare il Gigatonne gap “ossia il divario tra gli attuali impegni di riduzione delle emissioni e quelli necessari per contenere il surriscaldamento globale al di sotto dei 2°C, secondo un programma utile a sottoscrivere entro il 2015 un nuovo accordo globale legalmente vincolante”. Si tratta, come evidenzia il rapporto della United Nations Environment Programme (Unep) del 23 novembre scorso, di un gap considerevole e tuttavia colmabile entro il 2020, se i governi tradurranno subito in azioni concrete gli impegni assunti.
Ma nonostante l'emergenza climatica, il summit non parte però sotto i migliori auspici. Le potenze mondiali vi arrivano con vedute molto diverse sul futuro accordo. Pesa il fallimento del Vertice di Copenaghen del 2009, che doveva sancire l'intesa definitiva e invece si è concluso nel caos. Non convince neanche l’Incontro di Cancun dell'anno passato che ha lasciato in eredità troppi elementi che si oppongono ad un accordo definitivo sul clima.
Così se l'Europa appare disposta a fare la sua parte, gli Stati Uniti sono di tutt’altro avviso. L'amministrazione Obama, quella della promessa “green revolution” già bocciata da Greenpeace nel 2009, ha fatto sapere che gli Usa non intendono ratificare il Protocollo di Kyoto. A frenare gli Usa sembrano essere le diverse misure previste dal Protocollo per i paesi industrializzati rispetto a quelli in via di sviluppo, con questi ultimi che, non essendo considerati responsabili della drammatica situazione attuale, si devono impegnare in misura decisamente minore a ridurre le proprie emissioni (questa disparità permetterebbe all'economia cinese di avvantaggiarsi su quella americana, cosa considerata inaccettabile dall'amministrazione Usa).
Si è creata così una situazione di stallo dalla quale è difficile uscire. “L'Ue è pronta da anni a siglare un trattato globale a Durban, ma la realtà è che altre economie, come Usa e Cina, non lo sono” ha sottolineato il commissario dell’Unione Europea per il Clima, Connie Hedegaard “Siamo chiari - ha continuato Hedegaard - l'Ue sostiene il protocollo di Kyoto, ma un secondo periodo solo con l'Ue, che rappresenta solo l'11 per cento delle emissioni di CO2 del Pianeta, non è abbastanza per il clima”, soprattutto se rimarranno invariate quelle cinese e quello americano, che rappresentano rispettivamente il 18 ed il 24 per cento del totale.
Per molte associazioni ambientaliste però la responsabilità di un possibile fallimento a Durban è da ricercarsi non tanto fra i governi e le amministrazioni, molte delle quali colpite dalla crisi, quanto piuttosto nella rete delle grandi aziende inquinatrici. Secondo il rapporto Chi rema contro? (.pdf) di Greenpeace “un manipolo di multinazionali, tra cui Eskom, Basf, ArcelorMittal, Bhp Billiton, Shell e le industrie Koch, grazie anche alle associazioni di categoria e alle corporazioni di cui fanno parte, stanno condizionando pesantemente i governi e i negoziati politici riguardo alle leggi per la protezione del clima”. “Se i Governi vogliono scongiurare le conseguenze irreversibili dei cambiamenti climatici, devono ascoltare i cittadini, prima ancora dei mercati e agire nell'interesse della collettività”, ha dichiarato Salvatore Barbera, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.
Dello stesso avviso è anche la Campagna per la Riforma della Banca Mondiale (Crbm) che ha puntato il dito contro il ruolo della Banca Europea. L’istituto ha infatti finanziato con 589 milioni il settore del mercato dei crediti di carbone, che con il suo complesso meccanismo finanziario permette ai Paesi ricchi di evitare i loro obblighi di riduzione delle emissioni. Nel rapporto “Banking on carbon markets - Why the European Investment Bank has got it wrong in the fight against climate change”(.pdf), redatto dal network europeo Counter Balance, si spiega come i più grandi beneficiari del mercato dei crediti di carbonio siano le compagnie e gli intermediari che li trattano e non i Paesi del Sud del mondo che ricevono solo lo 0,5 dei finanziamenti. “Invece di investire il denaro dei contribuenti europei nel mercato dei crediti di carbonio, [...] la Banca europea per gli investimenti dovrebbe spendersi per ridurre concretamente le emissioni nel Vecchio Continente. Per esempio smettendo di sostenere economicamente l’estrazione dei combustibili fossili” ha spiegato da Durban Elena Gerebizza di Crbm.
Ma come se non bastasse un’altra sfida attende l’incontro di Durban, ed è quello ricordato del rapporto Living Forests (.pdf), presentato in Sudafrica alla vigilia dei negoziati sul clima dal Wwf e dedicato a foreste e clima. Secondo il rapporto, se il mondo continua a ritardare le misure necessarie per contenere la deforestazione, perderemo 124,7 milioni di ettari di foreste entro il 2030. Un dato allarmante anche per il clima perché i polmoni verdi della terra non forniscono solo quei servizi essenziali per il benessere delle persone e per la conservazione della biodiversità, ma svolgono un ruolo chiave essendo importanti serbatoi di gas serra. “La continua perdita di foreste ha e avrà nei prossimi anni conseguenze disastrose per il nostro clima globale, per la natura e per la sopravvivenza di miliardi di persone - ha detto Massimiliano Rocco responsabile Foreste del Wwf Italia - Non vi sono scappatoie possibili, strade alternative, la semplice messa a dimora di nuovi alberi non può certo essere la soluzione al problema della deforestazione”.
Insomma, anche se il quadro complessivo delle nazioni che si apprestano a partecipare al summit non sembra dei più confortanti un accordo globale sul clima è quanto mai urgente “se non vogliamo - ha concluso Oxfan citando il rapporto Gli eventi climatici estremi minacciano la sicurezza alimentare - che quello che è avvenuto quest’anno: dalla carestia nel Corno d'Africa alla grande ondata di calore in Russia e Ucraina, dalle piogge monsoniche e i numerosi tifoni nel Sudest asiatico alla siccità in Afghanistan, diventino un triste presagio di quanto ci aspetta in futuro”. Potrebbe essere questa l’ultima chiamata per la Terra.
Alessandro Graziadei

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