sabato 28 gennaio 2012

Etiopia: Waiting Here for Death

Negli ultimi anni la pressione delle banche, delle imprese multinazionali e dei governi stranieri per ottenere terreni fertili in alcuni Paesi africani come l’Etiopia non sembra avere limiti. Per Friends of the Earth “è in atto una vera e propria rapina della terra” (land grabbing) compiuta da impresari senza scrupoli che acquistano terreni, destinandoli ad un’agricoltura intensiva, più utile alle speculazioni alimentari, che ai bisogni delle popolazioni locali. È quanto denuncia una recente ricerca della ong dal titolo Farming Money, how Europeans banks and private finance profit from food speculation and land grabs (.pdf) che ha stilato una lista di banche e multinazionali (sotto accusa anche Unicredit e Generali) implicate nel fenomeno del land grabbing e delle speculazioni borsistiche sul cibo, fenomeno che ha allarmato anche la società civile riunendola nella campagna “Sulla fame non si specula”.
Come sostiene la stessa Friends of the Earth “è un dovere dei governi europei ascoltare le preoccupazioni di consumatori, lavoratori, agricoltori, attivisti e di tutti coloro che credono che controlli efficaci sulla speculazione finanziaria sulle materie prime agricole siano necessari per difendere i più poveri del mondo e i produttori di alimenti dall'esposizione a improvvisi aumenti dei prezzi alimentari”.
Il diritto al cibo e la sovranità alimentare per la campagna “Sulla fame non si specula” dovrebbero essere al centro di una più attenta regolamentazione europea, anche per evitare situazioni limite come quella affrontata dall’Etiopia. Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto del 16 gennaio dal titolo Waiting Here for Death documenta la deportazione in corso di circa 70.000 persone, strappate con la violenza dalle loro terre con la falsa promessa di ricollocarle in nuove aree provviste dei servizi essenziali.
Come è potuto succedere? Tra il 2008 e il 2011, l'Etiopia ha ceduto almeno 3,6 milioni di ettari, una superficie pari all'estensione di un Paese europeo come l'Olanda e offerto altri 2,1 milioni di ettari agli investitori stranieri, “in violazione della stessa costituzione etiope, e in barba ai diritti umani sanciti sulla carta delle convenzioni internazionali” ha spiegato Hrw.
 “Ora, per adempiere i contratti, due interi popoli, le comunità Anuak e Nuer della regione di Gambella [una regione etiope particolarmente fertile], stanno lasciando per sempre le loro terre migrando verso il nulla”.
I compratori internazionali, tra i quali figurano, tra i tanti, USA, Regno Unito, India, Banca Mondiale e Unione Europea, asseriscono di non essere direttamente coinvolti nei così detti villagization programs, sotto le cui insegne il governo procede all’evacuazione dei suoi cittadini, e per ripararsi da eventuali chiamate in correità avrebbero accertato che i trasferimenti delle popolazioni sarebbero avvenuti con il consenso di queste ultime.
In realtà si tratta di una difesa che contrasta con le rilevazioni sul campo eseguite da Human Rights Watch. Il rapporto della ong si basa su oltre un centinaio di interviste raccolte tra maggio e giugno scorso in Etiopia e in Kenya, nei campi profughi di Dadaab e a Nairobi, ove molti dei deportati di Gambella hanno cercato rifugio.
 “Mio padre è stato ucciso per essersi rifiutato di andare via, insieme ad altri anziani - si legge tra le molte testimonianze raccolte in Waiting Here for Death -. Sono nato qui, i miei figli sono nati qui - aveva detto - e ora sono troppo vecchio per spostarmi, rimarrò qui. I soldati lo hanno colpito coi calci del fucile, ed é morto”. Per un ex-funzionario del distretto:
”I contadini della nostra woreda [il distretto amministrativo locale] non volevano lasciare le loro terre. La woreda ha comunicato alla regione il loro rifiuto. Il governatore ha chiesto allora al presidente della woreda di investigare, e lui ha provveduto: Si, governatore, stanno resistendo. Cosa dobbiamo fare? Il governatore gli ha annunciato l’invio delle truppe armate. Ciò è, infatti, accaduto”. “Il governo ci ha costretti a venire qui a morire, proprio qui - ha spiegato un anziano agli operatori di Human Rights Watch - vogliamo che il mondo sappia che il governo ha portato il popolo Anuak qui a morire. Non ci hanno dato cibo e hanno dato via la nostra terra agli stranieri, così non potremo neppure tornare indietro. Da tutti i lati la terra è stata data via così noi moriremo qui, isolati”.
Per Jan Egeland, direttore per l’Europa di Hrw “il paradosso è che gli investimenti internazionali possono di fatto venire utilizzati, in via indiretta, per finanziare le deportazioni che vanno sotto la copertura dei villagization programs. È ora per banche, multinazionali e per i Paesi donatori di assumersi le proprie responsabilità, in linea coi rispettivi doveri assunti nelle convenzioni internazionali, e nel contempo il governo etiope deve rispettare i diritti delle popolazioni indigene, degli esseri umani, delle donne e delle famiglie”.
Un auspicio che ha fatto proprio anche Obang Metho, direttore del Movimento di solidarietà per la nuova Etiopia, che ha deciso di scrive ai “fratelli indiani” per chiedere la fine della rapina che vede coinvolta anche una delle “tigri” dello sviluppo asiatico. “Mi rivolgo anzitutto a Voi come esseri umani - ha scritto Metho - e Vi chiamo a unirvi ai nostri sforzi per fermare il saccheggio dell’Etiopia e dell’Africa da parte dei dittatori africani e dei loro complici e partner stranieri, alcuni dei quali sono indiani. Essi sono affamati delle nostre risorse, ma non hanno cura delle nostre popolazioni. Un etiope indigeno ha descritto la situazione così: Questo regime è uno dei più odiosi della storia d’Etiopia … uccidono le persone come se fossero nullità, e senza rimorsi. Alla luce di ciò, ho il dovere di avvisarvi che coloro che ora fanno business in Etiopia stanno realizzando accordi con un dittatore eletto in modo illegittimo, che ha costruito il proprio regime autoritario sulla soppressione brutale dei diritti dei suoi cittadini. Lo scopo di questa mia lettera aperta è quello di esporre il lato oscuro di questi affari, nella speranza di unire le forze con coloro che in India chiedono la giustizia e i diritti umani per tutti”.
Cosa direbbe oggi Gandhi - ha concluso Metho - se sapesse che gli indiani, i quali solo nella storia recente si sono liberati dalle catene del colonialismo, sono ora in prima linea in questo land-grabbing, nella gara per il controllo straniero delle terre e risorse africane, il cosiddetto Neo-Colonialismo dell’Africa?”. Noi non sappiamo cosa avrebbe fatto il Mahatma Ghandi, ma possiamo ragionevolmente pensare, senza presunzioni, che forse avrebbe detto “Sulla fame non si specula!”.
Alessandro Graziadei

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