È uscito in concomitanza con l’apertura dei lavori della Conferenza di Rio de Janeiro sullo Sviluppo Sostenibile la nuova pubblicazione dall’inequivocabile titolo “Gli Arraffa Terre. Il coinvolgimento italiano nel business del land grab” di Re:Common, l’associazione che ha raccolto il testimone della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale rinnovando il suo impegno a sottrarre al mercato e alle istituzioni finanziarie private e pubbliche il controllo delle risorse naturali. Si tratta di una mappatura puntuale e ricca di dati sul ruolo che l’Italia svolge nell’accaparramento dei terreni agricoli e dove il nostro Paese risulta “secondo solo al Regno Unito tra gli Stati europei più attivi nella discutibile pratica del land grab”, con Germania, Francia, Paesi Scandinavi, Olanda e Belgio a seguire.
Ma di quale Italia stiamo parlando? Sicuramente dell’Italia delle banche, delle imprese assicurative, delle grandi utilities energetiche e dei giganti dell’abbigliamento. Ma oltre ai nomi più o meno conosciuti, da Eni a Maccaferri, da Benetton a Generali fino ai tre big del credito Unicredit, Intesa e Monte dei Paschi di Siena, troviamo nello studio di Re:Common anche l’Italia delle piccole e medie imprese che portano ad una trentina le compagnie di bandiera sensibili all’agri-business. A Re:Common risulta che le imprese italiane abbiano messo gli occhi su “parecchie centinaia di migliaia di ettari” e che continuino “in maniera esponenziale a espandersi” spartendosi “una fetta di terreni che si calcola potrebbe superare i due milioni di ettari” dalla Patagonia all’Africa, in particolare in Mozambico, Etiopia e Senegal. Anche se, avverte il rapporto, non esistono numeri definitivi, “data la quasi totale mancanza di trasparenza e l’aura di diffusa segretezza che continua a circondare il fenomeno”.
Il land grabbing non è, infatti, sinonimo di investimento, quanto piuttosto di sfruttamento, ed è la stessa Banca Mondiale a confermarcelo. Circa l’80 per cento delle acquisizioni globali di terra annunciate negli ultimi anni non sono al momento produttive e molte di esse potrebbero non esserlo mai. In molti casi è sufficiente detenere il controllo sui terreni per ricavarne profitto, direttamente o indirettamente. Nella maggior parte dei casi però “le compagnie italiane acquisiscono a poco prezzo e per periodi molto lunghi centinaia di migliaia di ettari in paesi afflitti da siccità e fame come l’Etiopia - ha spiegato Giulia Franchi autrice del rapporto per Re:Common - per impiantare colture intensive, con lo scopo di produrre cibo per l’esportazione o per coltivare olio di palma o jatropha poi impiegate per generare bio-combustibili”. Esemplare per Re:Common la situazione della Senhuile SA, un’impresa per il 51% italiana del Gruppo Finanziario Tampieri e per il 49% senegalese, “che si è accaparrata 20mila ettari di terreno nella vallata del fiume Senegal, nella regione settentrionale di Podro, per 100mila dollari l’anno, cioè circa 3,5 euro all’anno per ettaro” per produrre bio-fuel o il più dubbio caso dell'italiana Fri-el Green, “che proprio in Etiopia paga 2,5 euro l’anno a ettaro per un totale di 30mila ettari affittati per 70 anni, la cui produzione di olio di palma potrebbe essere destinata ad alimentare la controversa centrale termoelettrica di Acerra”.
In realtà la società di Bolzano Fri-el Green, attiva da anni nel business delle energie rinnovabili, in una nota nella quale chiarisce di comprende e condivide l'obiettivo di ricerche come quelle di Re:Common, ha negato ogni addebito sottolineando come "sia presente in Africa esclusivamente in qualità di società agricola per la produzione di alimenti destinati al 100% al mercato locale e non all’esportazione" in un'area dove la maggior parte dei terreni in concessione sono "inadatti alla coltivazione". Ad oggi risulta che per via di disomogenee barriere orografiche solo 1.000 ettari siano coltivati a palme da olio e in percentuale maggiore a mais e che, in ogni caso, "entrambe le colture vengano prodotte per alimentazione umana".
Quello della Fri-el Green sembra un caso raro. Più spesso le piantagioni di jatropha, per esempio, entrano in competizione con la produzione alimentare, sia ovviamente nel caso in cui vengano messe a coltura su terreni molto fertili, sia quando sono coltivate su terre cosiddette marginali, ma in realtà essenziali per la sussistenza di piccoli agricoltori, pastori, cacciatori e raccoglitori. Questo compromette in maniera permanente questi mezzi di sussistenza, innalza i prezzi dei generi alimentari, distrugge preziosi ecosistemi naturali e danneggia irreparabilmente la biodiversità locale. Per Re:Common ormai ne abbiamo davanti agli occhi i risultati: “L’accaparramento di terre - ha dichiarato la Franchi - smobilita la capacità di produrre per il consumo locale, vincolando la produzione di cibo all’esportazione e replicando quindi ciò che ha reso gli impatti delle crisi alimentari così devastanti per i piccoli produttori di cibo”.
Si tratta di un problema di portata mondiale che anche Unimondo ha approfondito con una guida specifica curata dalla ricercatrice Sara Bin dalla quale emerge come le comunità rurali siano private dei loro mezzi di sostentamento, oltre che troppo spesso del diritto di gestire le risorse da cui dipendono attraverso una convergenza tra interessi politici ed economici, che criminalizza i movimenti sociali e in generale chiunque si mobiliti per difendere i propri diritti in un processo che non ha appartenenza geografica, perché avviene sia nel Sud che nel Nord del mondo.
Ovunque i beni comuni sono sotto scacco, le comunità locali scelgono di non arrendersi, come in Argentina dove “I fratelli Benetton, controllando la Compañía de Tierras, sono i più grandi proprietari privati di terreni in Argentina, dopo lo Stato”. Di conseguenza, rivela la ricerca di Re:Common, “la Benetton si trova da anni nel mirino di numerose organizzazioni umanitarie per le conseguenze provocate dalla sua attività sulla popolazione indigena Mapuche, che si è vista praticamente espropriare la propria terra”.
Ma oltre all'accaparramento di terre all'estero segnalato dalla ricerca di Re:common e favorito dalla zelante disponibilità di corrotti esecutivi locali, negli ultimi mesi si è aperto anche un “fronte interno”, caratterizzato dalla alienazione dei terreni agricoli del demanio pubblico, prevista dall’articolo 66 della Legge di stabilità del 2012. Un provvedimento molto discusso e avversato da Genuino Clandestino secondo cui continuando su questa linea “si fa solo il gioco degli speculatori, privando le comunità della prerogativa di decidere come gestire in maniera responsabile ed efficace ampie fette del territorio del nostro Paese”. Un esempio è il nuovo piano di riqualificazionedelle periferie agricole di Roma che per il Fondo Ambiente Italiano, Italia Nostra e WWF è una sciagura "che impatterebbe sull’ambiente dell’Agro romano investendo 135 aree per ospitare 30.000 alloggi da destinare a canone di affitto sociale” causando una dilatazione delle periferie di Roma a dispetto del polmone verde residuo.
Insomma, in Italia o all’estero, la rincorsa agli ettari di terra da parte dei soggetti privati sembra solo all'inizio. La loro difesa è fondamentale per resistere a quell’idea di green economy che si è profilata al summit di Rio de Janeiro e “che assoggetta la natura alle logiche del mercato e non mette minimamente in discussione un modello di sviluppo che produce sempre maggiore povertà diffusa e distruzione ambientale”, ha concluso Antonio Tricarico che a Rio ha rappresentato proprio Re:Common.
Alessandro Graziadei
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