La Nuova Guinea, la grande isola del Pacifico divisa dal 140° meridiano est in Papua Nuova Guinea e in Guinea Occidentale amministrata dal 1963 dall’Indonesia, è protagonista da alcuni mesi del risveglio indigeno nel suo lato orientale e della violenza anti-indipendentista nella sua estremità occidentale. Alla base dell’insofferenza, su entrambi i lati dell’isola dell’arcipelago indonesiano, troviamo le risorse minerarie, abbondanti anche nei fondali circostanti.
Ma andiamo con ordine. La Papua-Nuova Guinea ha momentaneamente staccato la spina all’industria estrattiva ritirandosi da un investimento di 75 milioni di dollari in uno dei settori che rappresenta, assieme all’olio di palma, il 72% delle esportazioni. Il mancato sostegno finanziario da parte del Governo della Papua-Nuova Guinea è arrivato dopo le proteste dei pescatori locali, che hanno convinto la scorsa settimana l’impresa canadese Nautilus Minerals ad interrompere l’avvio dei lavori, previsti per il 2013, del Solwara 1, il primo progetto al mondo di estrazione mineraria in alto mare nell’arcipelago di Bismarck, a 30 km dalle coste dell’isola di New Ireland. La Nautilus è la prima azienda ad esplorare il fondo marino come potenziale fonte di rame, oro, zinco e argento di alta qualità ed è considerata una leader mondiale nell’esplorazione e nell’estrazione di risorse minerali in acque profonde. Tuttavia non è riuscita a fugare i dubbi su un approccio rivendicato come “ecologicamente e socialmente responsabile”.
“Il 23 ottobre scorso gli oppositori al progetto, in buona parte indigeni, hanno consegnato al Governo una petizione firmata da 24.000 persone che chiedeva appunto la sospensione definitiva dei lavori - ha spiegato l’Associazione Popoli Minacciati (Apm) - La popolazione indigena locale vive principalmente di pesca e teme che l'estrazione mineraria in mare possa distruggere il patrimonio ittico”. “Per i popoli indigeni che da oltre 30.000 anni abitano sull’isola di New Ireland, sarebbe molto più economico e immediato puntare sull'industria ittica locale, che esporta soprattutto tonno in Giappone ed è economicamente solida” ha aggiunto Apm.
Le critiche al progetto sono però arrivate anche dagli scienziati marini che chiedono uno studio approfondito sui possibili effetti che tale progetto potrebbe avere per l'uomo e per l’ambiente. “Abbiamo bisogno almeno di altri 10 o 15 anni di ricerca per capire meglio l’ecosistema marino, prima di imbarcarci nell’estrazione di minerali in acque profonde” ha spiegato Chalapan Kaluwin, professore di scienze ambientali presso l’Università di Papua Nuova Guinea. In particolare “Non capiamo ancora le conseguenze e i potenziali impatti di questo progetto sulla biodiversità marina, la pesca e le barriere coralline, così come le ricadute sociali ed economiche per le persone e le comunità”, ha concluso Kaluwin.
Il settore minerario è da sempre considerato una risorsa economica su tutta l’isola, spesso a discapito dei popoli tribali e delle loro terre, oltre che dei loro mari. Nella Papua Occidentale, dal 1977 infatti, le truppe speciali dell’esercito di Giacarta sterminarono i ribelli dell’Organisasi Papua Merdeka - Movimento per la Libera Papua (Opm) e le misure repressive contro la popolazione indigena, in particolar modo gli Amungme, abitanti degli altipiani centro-meridionali dell’isola, dove sono concentrate le risorse minerarie, furono molto dure. Secondo alcune stime dal 1963 ad oggi sarebbero state uccise più di 100 mila persone, il 10% dell’intera popolazione indigena.
Amnesty International, Human Rights Watch e Survival International hanno accusato il governo indonesiano di ripetute violazioni dei diritti umani e i papuani lo definiscono vero e proprio genocidio e la politica di “indonesizzazione” della Papua mai abbandonata dal presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono è ancora vissuta come un trauma dalle tribù locali, e per le strade di Jayapura, capitale della provincia della Papua, la tensione etnica tra gli indonesiani e i melanesiani è tuttora palpabile.
In questi ultimi mesi del 2012, infatti, l’Apm ha a più riprese accusato il Governo dell'Indonesia di puntare sullo scontro e la violenza per sedare il conflitto con la popolazione nativa della Papua occidentale invece di cercare una soluzione pacifica attraverso il dialogo. In particolare l’ong ha criticato la decisione del governo indonesiano di nominare come nuovo capo della polizia della Papua Occidentale il generale di brigata Tito Kamavian, ex-comandante di una famigerata unità anti-terrorismo, e ha denunciato l’arresto lo scorso 2 settembre nella capitale di provincia Jayapura di 22 attivisti pro-Papua.
L'Apm ora si rivolge alle autorità indonesiane e chiede con forza che siano garantiti dei processi giusti per tutti gli arrestati. “L’opposizione al dominio indonesiano, anche se pacifica, comporta per i Papua il rischio di condanne altissime. Nel 2004 infatti è stato condannato a 15 anni di carcere Filep Karma semplicemente per aver issato la bandiera dell’Irian Jaya, il vessillo illegale della parte occidentale della Nuova Guinea. Filep Karma è tuttora in carcere e in agosto sono stati arrestati dieci papuasi per lo stesso motivo” ha concluso Apm.
Il risultato è che per il presidente indonesiano Yudhoyono non è stato un anno di missioni internazionali tranquille. Ogni volta che è sceso dall’auto diplomatica è stato circondato da dimostranti con la bandiera Papua.
Il risultato è che per il presidente indonesiano Yudhoyono non è stato un anno di missioni internazionali tranquille. Ogni volta che è sceso dall’auto diplomatica è stato circondato da dimostranti con la bandiera Papua.
Per le autorità indonesiane chiunque si impegni per una Papua indipendente viene trattato alla stregua di un terrorista e l’impressione è che in Nuova Guinea oggi il risveglio indigeno e la violenza anti-indipendentista siano due lati della stessa medaglia, quella legata ai profitti delle industrie estrattive a scapito dei diritti dei popoli indigeni. Per questo uno dei leader tribali ha dichiarato: “Siccome il mondo è interessato alle nostre risorse minerarie, non vogliono parlare della nostra condizione. Ecco perché il mondo ci ignora.” Ma dal 2002 Benny Wenda, capo tribale in asilo politico nel Regno Unito, ha formato la Free West Papua Campaign con l’obiettivo di sensibilizzare le istituzioni internazionali e ottenere un nuovo referendum d’indipendenza per la Papua Occidentale. La campagna di Wenda sta cominciando adesso a trovare sostegno globale con l’adesione di premi Nobel e intellettuali come Desmond Tutu e Noam Chomsky. Intanto in agosto il mandato di cattura internazionale emanato dall’Indonesia contro Wenda è stato cancellato definitivamente dall’Interpol.
Alessandro Graziadei
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