Le regioni a maggioranza kurda tra i fiumi Eufrate e Tigri nella Siria nordoccidentale contano una popolazione di almeno tre milioni di persone. A queste si aggiungono le centinaia di migliaia di profughi, di ogni gruppo etnico e religioso, provenienti da diverse aree in guerra del paese, che qui hanno cercato e trovato rifugio. Nel 2012 alcune organizzazioni kurde avevano già proposto l’autonomia del Rojava, ma solo il 17 marzo 2016 i tre cantoni di Kobane, Afrin e Jazira con il loro modello di confederalismo democratico si sono autoproclamati autonomi, ma federati a Damasco ed insieme ad organizzazioni assiro-aramee, turkmene e arabe hanno creato una piccola oasi, completamente isolata dal mondo esterno, in cui i diversi gruppi etnici e religiosi convivono pacificamente difendendosi per ora con successo sia da diverse milizie radicali di stampo islamico, sia dal governo turco e dal suo esercito.
Ora perché questa piccola democrazia di base a livello comunitario, senza la frammentazione su base etnica e religiosa voluta dalla comunità internazionale, rimanga un'“oasi di pace” e non venga sopraffatta dalla violenza costringendo gli abitanti a fuggire e a cercare aiuto altrove, serve urgentemente un sostegno umanitario dall’estero. “Le persone che vivono in questa zona protetta vorrebbero continuare a organizzare la loro vita anche al di là dell’emergenza della guerra. Per fare questo hanno però bisogno del sostegno dell’Europa. Sperano nella fine della dittatura di Assad e vogliono impedire a ogni costo che la Siria si trasformi in uno stato islamico basato sulla legge della Sharia” ha spiegato Kamal Sido referente dell’Associazione Popoli Minacciati (APM) di Göttingen e da poco rientrato da un viaggio conoscitivo nel Rojava. Per farsi un quadro della situazione generale, Sido ha incontrato i rappresentanti di quasi tutti i partiti politici presenti in Rojava, delle comunità religiose e delle minoranze etniche e ha parlato con i rappresentanti delle forze di sicurezza, dell’amministrazione e con diversi giornalisti raccogliendo numerose interviste pubblicate dall’APM di Göttingen in un rapporto che descrive la situazione generale e quella dei diritti umani in Siria.
I rappresentati delle organizzazioni kurde, cristiane, yezide e arabe intervistati da Sido hanno individuato i maggiori problemi della regione “nella mancanza di attrezzature per la depurazione dell'acqua potabile, nella necessità di migliorare l'assistenza medica e nella scostante e parziale fornitura di elettricità”. Sono queste le urgenze che dovrebbero essere risolte per evitare che la gente non sia obbligata a lasciare la propria casa e la propria terra. Un appartenente alle milizie cristiane Sutoro, della località Al-Hasakeh, ha dichiarato che “la gente non vuole andarsene per ritrovarsi nei centri di accoglienza sovraffollati europei, ma per poter restare bisogna prima di tutto eliminare le cause per cui la gente è costretta ad andarsene”. Secondo alcuni rappresentanti di ong presenti nel Rojava, “è importante anche sostenere forme di mediazione tra i diversi partiti kurdi per evitare possibili conflitti interni, combattere le violazioni dei diritti umani e gli arresti arbitrari”. In prospettiva ha spiegato Anwar Muslim, presidente del cantone di Kobane “La nostra richiesta alla comunità internazionale è quella di aiutarci nella futura ricostruzione, così come oggi siamo aiutati nella lotta contro l’IS”.
Al momento, però, non è solo l’IS ad allarmare questa pacifica un’enclave siriana. Lo scorso febbraio, infatti, sono stati i bombardamenti turchi ad Afrin a minacciare la pace dell’area. Secondo l’APM “Non vi è stata alcuna provocazione da parte dell'amministrazione di Afrin, ma ciononostante il 18 febbraio l’esercito turco ha bombardato diverse località e villaggi nel distretto. In particolare sono stati bombardati i villaggi di Shaykh al Hadid (Shiye), Derbalout, Hammam, Freriye, Sanare e Qarmitlike” facendo “morti e feriti tra la popolazione civile rimasta sul posto”. L’attacco è stato confermato sia dall’Osservatorio siriano per i Diritti Umani (con sede a Londra), sia da alcuni contatti in loco raggiunti telefonicamente dalla stessa APM. Il governo turco aveva giustificato il proprio attacco sostenendo che milizie kurdo-siriane avrebbero attaccato postazioni militari turche, ma le milizie kurde, impegnate da mesi a difendere il territorio dai miliziani dell'IS e dalle truppe del regime siriano di Bashar al-Assad, hanno da subito negato qualsiasi attacco e ancora oggi parlano di “un avvertimento contro l’autonomia dell’area da parte turca” che si è trasformato in un “vile attentato terroristico”.
È evidente che il governo turco vorrebbe evitare la costituzione di una regione autonoma kurda in Siria, proprio lungo la frontiera con la Turchia. Forse anche per questo la popolazione civile di Afrin subisce dal 2012 gli attacchi militari e i blocchi delle strade, che collegano l’enclave di Afrin con la capitale provinciale di Aleppo, da parte di diverse organizzazioni radical-islamiche come il Fronte Al Nusra, Ahrar Al Sham, Jaish Al Islam, Jaish Al Mujahidin e non ultimo dal cosiddetto Stato Islamico IS. “Il governo turco da parte sua ha sempre lasciato via libera alle milizie radicali mentre è intervenuto contro la popolazione civile kurda” ha concluso l’APM. La situazione geopolitica è sicuramente complessa e i timori turchi comprensibili, ma la pacifica convivenza dei kurdi con altre minoranze come gli Assiro/Aramei, i Cristiani, gli Yezidi, gli Alawiti, i Drusi, gli Ismailiti o gli Sciiti è un segnale di pace importante che l’Europa non dovrebbe ignorare.
Alessandro Graziadei
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