Quando sono atterrato per la prima volta a Cuba era il 1 ottobre del 1997. Avrei compiuto 22 anni su quell’isola pochi giorni dopo, il 9 ottobre. Lo stesso giorno, ma 30 anni prima, era stato giustiziato a La Higuera in Bolivia Ernesto Guevara, un medico asmatico di 39 anni che a Cuba aveva lasciato una rivoluzione, alcuni incarichi governativi, una moglie e 5 figli. Le ossa del Che, assieme a quelle di sei altri combattenti cubani morti durante la campagna in Bolivia, erano state ritrovate e poi identificate pochi mesi prima e sarebbero state tumulate con tutti gli onori militari il 17 ottobre del 1997 a Santa Clara, città che nel 1959 era stata teatro di una battaglia fondamentale per la liberazione dell’isola dal dittatore Fulgencio Batista. Assieme a migliaia di cubani, centinaia di latino americani e due amici ero a Cuba per salutare per l’ultima volta quel famoso rivoluzionario argentino che una foto di Alberto Korda aveva contribuito a trasformare in un’icona del ‘900. Ma prima del gran giorno la nostra fratellanza con il popolo cubano era già iniziata con la manifesta incapacità di stare al passo di un centometrista caraibico scalzo che si dileguava con il nostro zainetto, qualche decina di dollari e la mia carta di credito.
In quegli anni Cuba iniziava a rialzarsi da quello che è stato chiamato “il periodo especial”. Era uno stato di emergenza che si era venuto a creare in seguito alla crisi dell’Unione Sovietica, alla caduta nel 1989 del muro di Berlino e con esso del “blocco socialista”, dal quale arrivavano a Cuba a prezzi agevolati oltre l’80% delle importazioni. Le ripercussioni sulla vita dei cubani furono devastanti e anche procurarsi da mangiare era diventato un problema che non sempre il sistema statalista poteva risolvere. Anche se questo complicato periodo era ormai alle spalle molte difficoltà rimanevano, noi eravamo alla fine europei in vacanza e fino a prova contraria almeno i soldi per un volo aereo li avevamo. Ci mettemmo il cuore in pace e pensammo alla colletta alimentare involontariamente donata al rapido cubano. Molto più strano ci sembrava come, in piena emergenza alimentare e mentre l’obeso e razzista occidente stava a guardare, questi scellerati di cubani non avessero mai pensato di smettere di dare un contributo economico, militare e umano decisivo ai sogni (non alle illusioni) socialiste e antirazziste in mezzo mondo, riuscendo anche ad aprire le porte del carcere al terrorista Nelson Mandela (ricordandoci che la lotta al razzismo, talvolta, non si fa solo a parole). Come se non bastasse, mentre il sano e razzista occidente stava sempre a guardare, i farmaci a cuba diventavano merce rara e noi venivamo derubati per la seconda volta, dagli sportelli di qualche scassato aereo africano continuava a sbarcare a Cuba un vasto campionario di umanità in cerca di cure mediche gratuite. Quando non sbarcavano i pazienti a decollare erano i medici cubani, quando non decollavano i medici ad atterrare erano studenti da ogni Sud che solo a Cuba potevano permettersi di studiare gratis.
Come ha ricordato Lia Haramlik De Feo in uno dei pezzi più belli che abbia letto dopo la morte di Fidel Castro “nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come una onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato”. Ed è proprio così. Quel mio viaggio nel 1997 fu l’inizio di una serie di voli che per anni mi hanno scaricato in tutto il Centro America. E non posso trovare parole migliori di quelli di Lia per dire che “se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi”.
Siamo sicuri? E allora le centinaia di “balseros” che hanno perso la vita sulle zattere di fortuna mentre tentavano di raggiungere le coste americane? “Abbiamo poco da rimproverare a Castro - diceva spesso nel 1997 il giornalista Pedro Garcìa Suàrez che abbiamo avuto la fortuna di avere come vicino di casa all’Avana - forse solo credere che quello che è successo qui sia veramente esportabile”. Ma la questione che lo colpiva di più delle critiche a Cuba era proprio legata ai migranti. “Prima o poi l’Africa si metterà in cammino alla volta dell’Europa. Se i più dovessero morire lungo la strada di chi sarà la colpa? Di chi parte o di chi non accoglie?”, diceva Suàrez, anticipando lo scenario attuale e ricordandoci “che qui è stato Castro, nel 1994, a convincere gli Stai Uniti che erano necessarie misure per garantire che l’esodo tra le due nazioni avvenisse in modo sicuro, legale e ordinato”. Noi possiamo dire lo stesso? Purtroppo no. Ma la questione dei dissidenti e quella dei gay, qui sì che Cuba ha le sue responsabilità. Vero! Ma “Strano dittatore dunque, questo Fidel Castro - ha scritto all’indomani della morte Gennaro Carotenuto, professore di storia latino americana presso l’Università di Macerata - Fu dittatore per mezzo secolo dell’unico paese del continente americano che non ha conosciuto il dramma dei desaparecidos. Centinaia di migliaia di persone sono state fatte sparire nel frattempo da dittature e democrazie filostatunitensi in tutto il continente” ricordandoci anche che “Senza libertà di stampa, Cuba è pur sempre l’unico paese al mondo dove non è mai stato ammazzato un giornalista. E neanche un sindacalista, laddove in paesi come il Brasile, il Messico, la Colombia ne cade senza rumore uno al giorno”. Quanto ai gay è bene ricordare che oggi a l’Avana si celebra il Pride e che “sono 38 anni, non 15 giorni, che l'omosessualità non è più un crimine a Cuba, undici anni prima che l'OMS la rimuovesse dall'elenco delle malattie e prima di una buona metà degli Stati Uniti dove fino al 2003 era reato penale in una dozzina di stati, fino a vent'anni di carcere nel civilissimo Massachusetts” ha aggiunto in un post Carotenuto. Certo tutti dovremmo leggere “Prima che sia notte” di Reinaldo Arenas e ricordarci che negli anni ’60 e ’70 per volontà dello stesso Castro vi è stato l'internamento degli omosessuali in campi di rieducazione e l'isolamento coatto dei malati di AIDS. “Ma chi astrae ciò da un mondo intero dove in quegli anni l'omosessualità era un tabù se andava bene, un crimine se andava male e gli omosessuali venivano e vengono assassinati, e dove l’AIDS era una colpa e un castigo divino, e pensa che Cuba sia stata la punta di lancia dell'omofobia nel mondo, è francamente un imbecille” ha concluso Carotenuto.
Così, da quell’ottobre del 1997 mentre all’Avana Pedro Garcìa Suàrez e sua moglie Angelika sfamavano “quei 3 poveri ragazzi italiani derubati” e Daniel Diaz, un ragazzo cubano di Trinidad ci riportava “la reflex della vita” che avevamo distrattamente dimenticato davanti ai sui splendidi quadri, mi è capitato ancora di pensare alla propaganda di partito che ci ricordava che “nonostante l’embargo e le difficoltà economiche a Cuba non è stata chiusa una sola scuola, un solo ospedale e nessun cubano nel frattempo è morto di fame”. Il prezzo di tutto questo? La mancanza di libertà? Un solo partito legittimo, quello comunista? Insomma come mi chiedeva il nostro direttore Piergiorgio Cattani negli scorsi giorni “le cose buone che si sono fatte a Cuba sono state possibili solo mantenendo un regime?” E le possibili vie alternative, quelle che avrebbero evitato l’autoritarismo, avrebbero evitato anche la destabilizzazione e l'embargo economico degli Stati Uniti? “Sono un guevarista, molto critico rispetto al regime di Castro, ma la mia risposta è: ne dubito” ha scritto Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista argentino e io sono d’accordo con lui. Tuttavia conclude Benasayag “si può capire che oggi non c’è bisogno né di lacrime né di feste. Ciò di cui abbiamo bisogno è pensare, nel nostro attuale contesto, come sia possibile lottare contro il nuovo ordine mondiale repressivo, quello che oggi, nella democrazia, condanna le persone e mette in pericolo la vita del nostro pianeta” e in questo Cuba, forse, qualcosa da insegnarci ce l'ha.
Così, da quell’ottobre del 1997 mentre all’Avana Pedro Garcìa Suàrez e sua moglie Angelika sfamavano “quei 3 poveri ragazzi italiani derubati” e Daniel Diaz, un ragazzo cubano di Trinidad ci riportava “la reflex della vita” che avevamo distrattamente dimenticato davanti ai sui splendidi quadri, mi è capitato ancora di pensare alla propaganda di partito che ci ricordava che “nonostante l’embargo e le difficoltà economiche a Cuba non è stata chiusa una sola scuola, un solo ospedale e nessun cubano nel frattempo è morto di fame”. Il prezzo di tutto questo? La mancanza di libertà? Un solo partito legittimo, quello comunista? Insomma come mi chiedeva il nostro direttore Piergiorgio Cattani negli scorsi giorni “le cose buone che si sono fatte a Cuba sono state possibili solo mantenendo un regime?” E le possibili vie alternative, quelle che avrebbero evitato l’autoritarismo, avrebbero evitato anche la destabilizzazione e l'embargo economico degli Stati Uniti? “Sono un guevarista, molto critico rispetto al regime di Castro, ma la mia risposta è: ne dubito” ha scritto Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista argentino e io sono d’accordo con lui. Tuttavia conclude Benasayag “si può capire che oggi non c’è bisogno né di lacrime né di feste. Ciò di cui abbiamo bisogno è pensare, nel nostro attuale contesto, come sia possibile lottare contro il nuovo ordine mondiale repressivo, quello che oggi, nella democrazia, condanna le persone e mette in pericolo la vita del nostro pianeta” e in questo Cuba, forse, qualcosa da insegnarci ce l'ha.
Come ha scritto José Miguel Sànchez “C’è sicuramente di meglio e di peggio al mondo che vivere a Cuba. Ma niente che gli somigli. Niente che valga questo desiderio e questa disperazione. Niente che dia tanto struggimento a chi qui non c’è mai venuto e niente che lasci tanta nostalgia in chi non se n’è mai andato”. Quanto alla rivoluzione cubana guidata da Fidel Castro c’è una cosa che mi ha sempre colpito. È personale lo so, ma la ritengo significativa per quanto il campione sia stato limitato. Io nel 1997 ho bloccato la mia carta di credito un’ora dopo quel primo vano tentativo di inseguimento del centometrista caraibico scalzo. Ma anche qui è stato più veloce di me ed è riuscito ad usarla. L’estratto conto che ho letto il mese dopo recitava: “Vento garaje – alquiler coche convertible”. Tra tutte le cose che avrebbe potuto fare per migliorarsi la vita con una carta di credito (e vi assicuro a Cuba ce ne erano molte) la priorità di quel ragazzo è stata affittarsi per un giorno un cabriolet. Non so se oggi quell’uomo sia più triste o più felice e non so neanche se si è mai reso conto che in un modo o nell’altro quel giro in cabriolet lo deve al “compagno Fidel” e ad uno stato che è stato capace di garantire a tutti i cubani una seppur minima copertura di tutte le loro esigenze fondamentali. A distanza di ‘20anni lo immagino ancora con qualche amico sfrecciare in cabriolet lungo il Malecon de l’Avana e non posso non pensare che, per quanto mi riguarda: la rivoluzione cubana a suo modo ha vinto; che quelli sono stati tra i soldi meglio spesi in vita mia; che il 4 dicembre mi piacerebbe essere come nel 1997 in mezzo ad una marea di cubani a salutare chi, non senza sbagliare, ha provato a costruire un altro mondo possibile; e infine che mi fa un po' di paura pensare cosa potrebbe fare, domani senza Fidel, un altro centometrista scalzo con la mia carta di credito.
Alessandro Graziadei
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