Dal 1998 a oggi l’Iran ha giustiziato quasi 10.000 persone per il reato di spaccio e possesso di droghe. Un numero impressionante, ma che non stupisce visto che fino allo scorso agosto bastavano 30 grammi di cocaina per finire nelle mani del boia. La scorsa estate però il Parlamento ha innalzato il quantitativo minimo di droga detenuta per poter essere condannati a morte portandolo a 2 kg per la cocaina e a 50 kg per oppio, derivati dell’oppio e marijuana. Secondo fonti ufficiali di Teheran la nuova legge avrà effetto retroattivo permettendo così, a partire da questi primi mesi del 2018, una revisione dei processi e delle condanne a morte che dovrebbero coinvolgere i 5.000 prigionieri detenuti nel braccio della morte con l’accusa di possesso e spaccio di droghe e ancora in attesa di essere giustiziati. Di questi, almeno il 90% hanno un’età compresa fra i 20 e i 30 anni.
Il capo della magistratura iraniana, l'ayatollah Sadegh Larijani, ha confermato nelle scorse settimane che “la maggior parte delle condanne capitali saranno commutate in detenzioni carcerarie”. Una decisione a lungo attesa da attivisti e ong per i diritti umani, come ha sottolineato Mahmood Amiry-Moghaddam di Iran Human Rights (IHR). “Se applicato in modo adeguato questo cambiamento alla legge rappresenterà uno dei passi più significativi verso la riduzione dell’uso della pena di morte in Iran”. L’applicazione della norma non è per Amiry-Moghaddam un colpo di spugna verso i criminali, ma l’occasione per risparmiare la vita a persone non sempre incarcerate nella piena evidenza della loro colpevolezza. “Dato che la maggior parte dei condannati per reati legati alla droga provengono dalle fasce più giovani ed emarginate della popolazione spesso non hanno risorse per ricorrere in appello e ottenere una modifica della loro sentenza”.
Già nel 2016 il ministro iraniano della Giustizia Mostafa Pourmohammadi aveva annunciato la ricerca di “punizioni efficaci alternative alla pena capitale non solo per quanto riguarda i reati di detenzione e spaccio di droghe", auspicando una revisione delle leggi e la conseguente riduzione del numero di esecuzioni capitali limitate solo ai casi di “reati gravi”. Una posizione più “morbida” in contrasto con la violenta repressione, con decine di morti e centinaia di arresti, che ha subito la “rivolta” promossa soprattutto dai giovani iraniani contro l’aumento dei prezzi, la corruzione e le posizioni liberticide del Governo. Eppure proprio alla vigilia degli scontri, Teheran, forse nel tentativo di tamponare il malcontento, aveva annunciato per voce del generale della polizia della capitale, che le autorità non avrebbero più richiesto il carcere per chi viola il codice d’abbigliamento islamico nella capitale. Al posto della prigione, le persone scoperte ad indossare un abbigliamento “inadeguato” adesso saranno invitate a frequentare corsi rieducativi.
Un’altra solo parziale “buona notizia” per la presidenza del moderato Hassan Rouhani, che in modo graduale sta liberalizzando i costumi iraniani, nonostante i non pochi fautori della linea più dura e conservatrice presenti tra le forze di sicurezza e nel sistema giudiziario del Paese. Anche per questo le regole restrittive per l’abbigliamento restano ancora in vigore al di fuori della capitale e, stando a quanto riporta l’agenzia iraniana Tasmin, i recidivi potrebbero ancora affrontare le conseguenze legali di un regolamento in vigore nella Repubblica islamica sin dalla rivoluzione del 1979. In base ad esso, “le donne devono coprire i capelli e indossare abiti larghi e lunghi”, un diktat che molte giovani donne iraniane hanno deciso apertamente di sfidare indossando veli che lasciano in modo parziale scoperta la testa, soprattutto a Teheran, dove agli uomini sono ancora vietati “il torso nudo e i pantaloni corti”.
Un regolamento che stride con un’altra storica decisone: quelle che per la prima volta dalla Rivoluzione islamica del 1979 ha visto, dall’11 al 15 dicembre, la capitale iraniana ospitare cinque concerti degli Schiller. La band musicale pop elettronica occidentale guidata dal leader e compositore Christopher von Deylen, una delle star mondiali del settore con oltre sette milioni di dischi venduti in tutto il mondo, ha fatto registrare il tutto esaurito anche tra i giovani iraniani sempre più stanchi dell’egemonia della leadership religiosa e in cerca di un riscatto almeno ricreativo. Nessuno fino allo scorso dicembre si era potuto esibire in pubblico in Iran dal bando imposto dagli ayatollah, che considerano la musica occidentale parte di un piano finalizzato alla “invasione culturale” del Paese. Nel 2008 il tentativo di organizzare un concerto del cantante irlandese Chris de Burgh era saltato all’ultimo minuto, proprio a causa di un veto imposto dalla leadership religiosa, nonostante il permesso già ottenuto dal ministero della Cultura.
Adesso, tre le proteste di piazza, sembra che la guida del presidente Rouhani, confermato per un secondo mandato il 19 maggio scorso, dopo aver incassato l’accordo sul nucleare, una timida crescita economica e un rilancio del turismo punti ad una liberalizzazione dei diritti civili e culturali. Ma con molti diritti umani sistematicamente negati, la strada è ancora lunga. Ayatollah permettendo.
Alessandro Graziadei
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