Chernobyl ci ha insegnato che la radioattività può continuare a rappresentare un rischio per l’ambiente e la salute per centinaia di anni. Nel marzo del 2013, infatti, sono state trovate tracce di Cesio 137, oltre la soglia prevista in caso di incidente nucleare, nella lingua e nel diaframma di 27 cinghiali del comprensorio alpino della Valsesia in Italia. Anche se non è stato possibile risalire all’origine certa della radioattività, come ci aveva ricordato Elena Fantuzzi responsabile dell’Istituto di Radioprotezione dell’Enea, “Il cesio 137 è un radionuclide artificiale prodotto dalla fissione nucleare. Viene rilasciato quindi solo da siti nucleari”. Le ipotesi più accreditate sono subito state quelle secondo cui il cesio potrebbe essere ancora quello rilasciato dall’incidente della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986. Per questo i numerosi rapporti sulle conseguenze ecologiche del disastro nucleare di Fukushima seguito al terremoto/tsunami dell’11 marzo 2011, che in questi anni hanno confermato la contaminazione radioattiva dei fondali marini al largo della costa di Fukushima come centinaia di volte al di sopra dei livelli antecedenti il 2011 e quella nei fiumi locali fino a 200 volte superiore rispetto a quella dei sedimenti oceanici, non ci sorprendono più.
Ai costi ecologici vanno aggiunti quelli economici visto che dopo l’incidente del marzo 2011 i costi delle bollette giapponesi si sono alzati di almeno 327 miliardi di yen e la Tepco continua a sborsare miliardi per la gestione delle attrezzature indispensabili per mantenere in sicurezza il cadavere radioattivo della centrale di Fukushima Daiichi e per trattare l’acqua radioattiva, che ha invaso i sotterranei dei reattori di Fukushima. In realtà queste “spese supplementari straordinarie” sono pagate dal governo che sta risarcendo “temporaneamente” i danni a nome della Tepco, una compagnia ormai fallita e tenuta in piedi dallo stesso Governo giapponese solo per gestire l'emergenza. Ora secondo tre esperti dell’Onu per i diritti umani il Giappone deve agire con urgenza anche “per proteggere decine di migliaia di lavoratori che sarebbero stati sfruttati ed esposti a radiazioni nucleari tossiche durante i lavori per bonificare la centrale nucleare danneggiata di Fukushima Daiichi”.
A sollevare il problema nelle scorse settimane sono stati Baskut Tuncak, relatore speciale per i diritti umani nella gestione delle sostanze e dei rifiuti pericolosi, Urmila Bhoola, relatrice speciale sulle forme contemporanee di schiavitù e Dainius Puras, relatore speciale sul diritto al godimento del più alto livello raggiungibile di salute fisica e mentale. Secondo quanto riporta un comunicato del 16 agosto dell’United Nations human rights council (Unhrc), i tre esperti sarebbero “profondamente preoccupati per il possibile sfruttamento dei lavoratori, per i rischi di esposizione alle radiazioni, per la possibile coercizione nell’accettare condizioni di lavoro pericolose a causa di difficoltà economiche e per l’inadeguatezza delle misure di formazione e di protezione. Siamo ugualmente preoccupati per l’impatto che l’esposizione alle radiazioni può avere sulla loro salute fisica e mentale”. La contaminazione dell’area e l’esposizione alle radiazioni rappresentano, infatti, un grave pericolo anche in condizioni di protezione ottimali per tutti i “liquidatori” che ancora oggi stanno cercano di mettere in sicurezza l’area teatro della catastrofe nucleare.
Secondo l’Unhcr nell’ambito del programma di decontaminazione sono stati reclutati decine di migliaia di lavoratori che includerebbero anche lavoratori migranti, richiedenti asilo e persone senza fissa dimora. La notizia non è di per sé una novità, almeno in Giappone. La Tokyo Electric Power Company (Tepco), la compagnia nucleare proprietaria di Fukushima Daiichi, era infatti, già finita più volte nei guai per il trattamento dei lavoratori impiegati nella bonifica. Già nel 2013 un’inchiesta della Reuters aveva fatto emergere a Fukushima Daiichi “diffusi abusi sul lavoro e le denunce di lavoratori con retribuzioni improvvisamente ridotte”. A luglio invece, un’indagine condotta dal ministero della giustizia giapponese ha mostrato che 4 società edili avevano assunto tirocinanti stranieri per farli lavorare alla decontaminazione radioattiva della centrale. L’inchiesta ha rilevato che una delle 4 società aveva pagato solo 2.000 yen (18 dollari, 16 euro) al giorno i tirocinanti, meno di un terzo dei 6.600 yen forniti dal governo come indennità speciale per il lavoro di decontaminazione. E i lavoratori coinvolti non sono certo sono pochi: sul suo sito web il ministero della salute, del lavoro e del welfare giapponese ha dichiarato che nel 2016 “sono stati impiegati 4.786 lavoratori” mentre il Radiation Worker Central Registration Centre of Japan ha indicato che “in cinque anni, fino al 2016, sono stati assunti ben 76.951 lavoratori addetti alla decontaminazione”.
Ora anche la nota dei tre esperti dell’Onu denuncia come “Rapporti dettagliati evidenziano che i contratti di decontaminazione sono stati attribuiti a diversi grandi appaltatori e che sono stati subappaltati a centinaia di piccole imprese, senza esperienza in materia, destando preoccupazione. Queste disposizioni, insieme all’utilizzo di intermediari per reclutare un numero considerevole di lavoratori, potrebbero aver creato condizioni favorevoli per l’abuso e la violazione dei diritti dei lavoratori”. Dopo che nel 2017 gli esperti di diritti umani delle Nazioni Unite avevano avviato un dialogo con il Governo giapponese, in queste settimane Tokyo ha finalmente preso in considerazione la necessità di rafforzare la protezione per i lavoratori dichiarandosi disponibili ad affrontare al meglio “il problema dei diritti e dell’esposizione dei lavoratori alle radiazioni tossiche”. Sarà vero?
Alessandro Graziadei
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