Nel settembre del 2013 al meeting del Pacific Islands Forum (Pif), riunito per l’occasione a Majuro, la capitale delle Isole Marshall, veniva approvata la Dichiarazione di Majuro per la leadership climatica che impegnava le isole del Pacifico ad essere delle “Climate Leaders” protagoniste di un futuro sostenibile soprattutto per quei Popoli del Pacifico che già nel 2013 rischiavano di trovarsi con l’acqua alla gola a causa del cambiamento climatico. L’allora padrone di casa, il presidente delle Marshall Christopher Loeak, rivolgendosi ai delegati dei 15 Paesi del Pif, ai rappresentanti di Unione europea, di Usa e di molti Paesi del mondo aveva ricordato come mentre molte isole del Pacifico lentamente scompaiono sotto il livello dell’acqua e sono spazzate da fenomeni meteorologici sempre più devastanti, “La mia terra rimane la mia unica casa, il mio patrimonio e la mia identità in un modo che la lingua inglese non può catturare, sta scomparendo. Eppure questo è il mio Paese e io starò sempre qui, anche quando l’acqua ci sommergerà”. Il problema è che dei destini dei Popoli del Pacifico, al netto di alcuni accordi commerciali e dell’interesse di una fiorente industria del turismo specializzata nell’organizzare vacanze da sogno, non frega nulla a nessuno.
Da quel 2013, infatti, poco o nulla è cambiato tanto che ad inizio mese durante una visita a Sydney, il primo ministro delle Isole Samoa, Tuilaepa Aiono Sailele Malielegaoi, intervenuto al Lowy Institute, alla vigilia del Pacific Islands Forum di Nauru ha detto che il cambiamento climatico è ormai, “nell’indifferenza generale” una “minaccia esistenziale per tutta la nostra famiglia del Pacifico” e ha aggiunto che “Qualsiasi leader mondiale che negasse l’esistenza del cambiamento climatico dovrebbe essere portato in un ospedale psichiatrico”. Sailele si è mostrato chiaramente molto preoccupato per lo scarso impegno internazionale nei confronti dei cambiamenti climatici, che ha definito “la più grande minaccia al sostentamento, alla sicurezza e al benessere dei popoli del Pacifico” aggiungendo che “Samoa e altre isole del Pacifico stanno già avvertendo gli effetti del riscaldamento globale. Diverse isole minori della regione sono state inghiottite [dall’oceano] negli ultimi anni a causa dell’innalzamento del livello del mare”. Una accusa diretta non solo al Presidente statunitense Donald Trump, ma anche al nuovo premier l’australiano Scott Morrison, un negazionista climatico che vorrebbe seguire le orme di Trump e abbandonare l’Accordo di Parigi, per poter non rispettare gli impegni presi dall’Australia nel tagliare le sue emissioni di gas serra.
Ma Sailele, premier di un piccolo Paese insulare dipendente dagli aiuti di Usa e Australia, ha accusato di “menefreghismo climatico” anche altri giganti come India e Cina che, insieme agli Usa, “sono i tre Paesi che sono responsabile di tutto questo disastro” e ha invitato la comunità internazionale ad avere “un’ambizione maggiore per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi e salvare così i paesi delle isole del Pacifico che invano continuano a sollecitare un’azione più rapida da parte di tutti i Paesi del mondo”. Per il presidente delle Samoa è finito il tempo delle dichiarazione di intenti e occorre iniziare ad affrontare il cambiamento climatico concretamente: “Conosciamo tutti il problema, ne conosciamo tutti le cause, conosciamo tutti le soluzioni. C’è bisogno solo di un po’ di coraggio politico, un po’ di fegato politico per riuscire a dire alla gente del proprio Paese cosa fare per non avere la certezza di un disastro ambientale”. Un appello che è rimbalzato fino a Bangkok dove era in corso la Conferenza sul cambiamento climatico dell’United Nations framework convention on climate change (Unfccc) che doveva preparare gli orientamenti per l’attuazione dell’Accordo di Parigi e ridisegnare le linee guida da approvare alla 24esima Conferenza delle parti Unfccc che si terrà a dicembre a Katowice, in Polonia.
Anche in Tailandia il “grido più forte” e arrivato dal Pacifico con il presidente delle Isole Fiji e della COP23, Josaia Voreqe Bainimarama, che ha ricordato come deve ancora essere raggiunto un consenso utile a creare orientamenti chiari per la piena attuazione dell’Accordo di Parigi. Oltre alla delicata situazione dei Paesi del Pacifico, ormai in tutto il mondo gli effetti dei cambiamenti climatici stanno diventando più evidenti e più severi e i Nationally Determined Contributions non sembrano più sufficienti per mantenere fede agli obiettivi dell’accordo di Parigi. “Penso che tutti sappiamo che non abbiamo fatto abbastanza progressi - ha ammonito Bainimarama -. Senza linee guida di implementazione con le quali tutti possano convivere, a Katowice rischiamo il caos e la possibilità di un ulteriore ritardo nella lotta al cambiamento climatico” e visto che le intenzioni non sono azioni, “dobbiamo affrontare le cause dei cambiamenti climatici ora e dobbiamo gettarci all’attacco del problema senza trattenere un’oncia di energia”. Una promessa realizzabile? Per Bainimarama si tratta di un duro lavoro, “Ogni nazione deve prendere decisioni che potrebbero essere politicamente difficili. Ma è per questo che siamo stati scelti come leader, perché i leader fanno un duro lavoro, prendono le decisioni difficili per il bene comune e le difendono”.
Il problema appunto appaiono i leader, non tutti capaci di una politica moralmente ed ecologicamente consapevole del fatto che il fallimento semplicemente non è più un’opzione. Nonostante questo sono sempre di più i protagonisti economici, ma anche della società civile che stanno cercando di accelerare una mitigazione climatica. I governi guidano chiaramente il processo di cambiamento climatico, ma da soli non possono affrontare la sfida e hanno bisogno del sostegno di tutti questi attori “minori”. Le 2018 Climate Weeks in Africa, Asia e America Latina, il Global Climate Action Summit a San Francisco del 12-14 settembre scorsi, la Climate Week di New York della prossima settimana e le molte iniziative verdi di comuni e città sparse per il mondo, sono tutti eventi che dimostrano chiaramente che siamo pronti ad attuare l’accordo di Parigi come previsto nel 2015. Ora le voci dei Paesi poveri e vulnerabili come quelli del Pacifico vanno ascoltate e occorre proteggere soprattutto queste comunità, che pagano più di altre le terribili conseguenze di questa crisi climatica, senza averne però una responsabilità diretta.
Alessandro Graziadei
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