La Thailandia non ha mai sottoscritto la convenzione delle Nazioni Unite che riconosce i rifugiati, ma è uno dei maggiori crocevia migratori di tutto il sud est asiatico. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) nel Paese sono presenti circa 4-5 milioni di lavoratori migranti, a cui si aggiungono circa un milione di persone senza lavoro e spesso senza documenti, come accade a centinaia di cambogiani e laotiani, oltre che ai profughi Rohinga dal Myanmar. Gruppi locali di attivisti per i diritti umani denunciano che rifugiati e richiedenti asilo in transitano verso un Paese terzo, sono sempre più spesso vittime di operazioni di polizia e restano quasi sempre privi di qualsiasi protezione legale. La loro situazione è diventata molto incerta dal primo gennaio 2018, quando le autorità di Bangkok hanno chiuso la sospensiva di un decreto repressivo contro i migranti non regolarmente registrati. Da allora e in modo particolarmente brutale nelle ultime settimane le persone “dalla pelle scura” sono l’obiettivo di un’operazione di polizia dal profilo razziale denominata “X-Ray Outlaw Foreigner” e finalizzata ad espellere per conto della giunta miliare al governo tutti i lavoratori stranieri “illegali”.
Dal 15 ottobre questo giro di vite sui migranti ha portato a circa 1.000 fermi e molti arresti arbitrari tra i richiedenti asilo, come è accaduto pochi giorni fa a 70 persone appartenenti alla minoranza religiosa dei cristiani pakistani e attualmente ancora detenute dalla polizia con l’accusa di "ingresso e soggiorno illegali", nonostante fossero in fuga dalla persecuzione religiosa subita in patria. Per Surachate Hakparn, capo dell’Ufficio immigrazione, “è indispensabile classificare quali siano le persone con la pelle scura buone e quali potrebbero commettere reati”. Tra questi, vi sono quelli che il funzionario definisce “truffatori romantici”, spesso nigeriani o ugandesi, che raggirano su internet i cuori solitari thailandesi per sottrarre loro denaro. Per le autorità di Bangkok tra gli osservati speciali dalla “pelle scura” ci sono però principalmente gli immigrati in fuga dai conflitti etnici del confinante Myanmar. Da anni, infatti, la Thailandia è esposta ad una massiccia immigrazione, favorita in parte dalla porosità dei confini nazionali, ma dettata da aspetti storici e geografici che hanno portato alla nascita di alcuni campi profughi dell’Onu nella provincia di Mae Hong Son, nella parte ovest del Paese.
In Thailandia l’aumento del flusso migratorio si inserisce in un contesto economico stagnante che stenta ad assorbire nuovi lavoratori dopo aver puntato per anni sugli immigrati giunti soprattutto dal Myanmar per soddisfare la domanda interna di lavoratori a bassa qualifica e bassa retribuzione. Alla questione economica si è adesso aggiunta quella sociale relativa ai diffusi atteggiamenti d’intolleranza che i thailandesi hanno progressivamente assunto verso i cittadini birmani, considerati come “quelli che ci rubano il lavoro”. Se per anni il governo thailandese ha tratto un vantaggio in termini di sviluppo economico da questa situazione, oggi davanti ad un rallentamento della crescita non sembra esserci una direzione politica precisa da seguire, il Governo va avanti a mosse dettate dalla contingenza, come quella che ha convinto la giunta militare ad adottare il “X-Ray Outlaw Foreigner” per tranquillizzare una parte dei cittadini thailandesi.
Bangkok sembra in una situazione non diversa da quella adottata anche dal Governo malaysiano che da agosto ha lanciato un’operazione su vasca scala contro l’immigrazione "clandestina". Datuk Seri Mustafar Ali, direttore generale dell’Ufficio Immigrazione di Kuala Lumpur, ha sempre presentato l'iniziativa “Ops Mega 3.0”, come il tentativo di contrastare le organizzazioni criminali coinvolte nel fenomeno della “schiavitù moderna”. Alla riuscita dell’operazione sono state chiamate molte agenzie governative e ministeri, oltre alle ambasciate dei cittadini stranieri che in questi mesi sono stati fermati e rispediti "a casa loro". Il risultato? Tra il 2014 e il 28 agosto di quest'anno, 867.336 immigrati clandestini hanno lasciato la Malaysia grazie ad una sorta di indulto terminato due mesi fa. Il provvedimento governativo consentiva ai richiedenti di fare ritorno al proprio Paese, dopo aver pagato una multa di 300 ringgit malesi (62,50 euro) e versato un contributo di 100 ringgit (20,85 euro) per il rilascio di un pass speciale. Kuala Lumpur ha così incassato 400 milioni di ringgit (83,27 milioni di euro) solo grazie alle sanzioni.
Da fine agosto però si è aperta in tutto il Paese una vera e propria “caccia agli immigrati clandestini” che ha portato il dipartimento dell’immigrazione di Kuala Lumpur ha condurre 9.449 operazioni di controllo, verificando lo status di 116.270 stranieri residenti nell'arcipelago. Ad oggi dopo l’operazione “Ops Mega 3.0” sono stati arrestati 29.040 lavoratori irregolari e 879 datori di lavoro. Tra le persone detenute, 9.759 provengono dall’Indonesia, 5.959 dal Bangladesh, 2.830 dalle Filippine e 2.715 dal Myanmar. Nel Paese rimangono circa 1,7 milioni di lavoratori stranieri in possesso di una regolare documentazione, ma considerati dal Governo “osservati speciali”, quasi come il milione di clandestini che ancora vivono in Malaysia e che come nel resto dei paesi del sud est asiatico e del mondo diventano all’occorrenza il capo espiatorio di criticità economiche e povertà pagate dalla popolazione locale, ma che con l’immigrazione hanno ben poco a che fare.
Alessandro Graziadei
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