sabato 6 aprile 2019

Israele e il land grabbing elettorale (e non solo)

Il conflitto israelo-palestinese, mai sopito ma riaccesosi in queste ultime due settimane, è una di quelle tematiche complesse e delicate che trascende la storia andando a toccare esperienze e sensibilità diverse in ognuno di noi e provocando spesso reazioni aggressive o dibattiti infiniti. Ogni domanda ne suscita un’altra, ogni risposta sembra non comprendere tutte le ragioni palestinesi o tutte le spiegazioni israeliane, ed è facile talvolta trovarsi a difendere una posizione molto più estremista di quanto si creda o non trovarne una così rispettabile da meritare la nostra difesa. Al netto della condanna di ogni violenza, degli opposti estremisti e di autorità che sembrano troppo spesso legittimarsi solo con l’opposizione violenta alla controparte, c’è una strategia dei governi israeliani che non può non essere analizzata con uno spirito critico. Si tratta degli espropri forzati che hanno portato negli ultimi 50 anni Tel Aviv (per le Nazioni Unite, Gerusalemme per Israele) ad accaparrarsi oltre 10mila ettari di terra dei palestinesi. Come mai? “Questioni di sicurezza nazionale” la ragione ufficiale, peccato che circa la metà di questi terreni sia oggi finita in concessione ai coloni.

È quanto emerge dal rapporto "Seize the Moral. Low Groundpubblicato lo scorso mese da Kerem Navot, una organizzazione non governativa israeliana che ha monitorato la crescita degli insediamenti e le operazioni di esproprio promosse dal Governo di Israele nella West Bank fra il 1969 e il 2014. Secondo gli attivisti della ong, “circa il 47% della terra requisita sfruttando norme e leggi che rientrano nel novero delle necessità urgenti sul piano militare sono usate oggi per gli insediamenti o come strade di accesso alle colonie. Alcune di queste, in un primo momento, erano usate per infrastrutture militari o depositi dell’esercito. Con il passare degli anni edifici e terreni sono stati concessi in usufrutto ai coloni”. Al momento le colonie, illegali secondo il diritto internazionale, si trovano a Gerusalemme Est, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e sulle Alture del Golan. Secondo dati del ministero israeliano degli Interni, quelle riconosciute in Cisgiordania sono almeno 133 alle quali si aggiungono un centinaio di “avamposti” che ospitano circa 500mila persone. Solo a Gerusalemme Est vivono circa 300 mila israeliani e altri 20 mila abitano nelle Alture del Golan.

L’autore della ricerca, Dror Etkes, spiega che la prima ondata di insediamenti si è registrata sotto un governo a guida laburista, considerato moderato, fra il 1967 e il 1977. Il picco sarebbe però avvenuto fra il 1979 e il 1983, con il Likud, l’attuale partito di governo, al potere nel Paese, quando secondo il ricercatore ha iniziato a farsi largo “il concetto di sequestro di terra a favore dei coloni". Anche se nel 1979 Israele ha accettato di ritirarsi dagli insediamenti nel Sinai, dopo aver firmato l’accordo di pace con l’Egitto, solo nel 2005 l’allora premier Ariel Sharon ha ordinato lo smantellamento di 17 colonie israeliane nella Striscia di Gaza. Tuttavia da allora poco è cambiato. Per il Governo israeliano gli insediamenti sono infrastrutture militari, costruite nei territori conquistati da Israele dopo la Guerra dei sei giorni del giugno del 1967 per scopi difensivi oramai permanenti, mentre secondo il diritto internazionale questi espropri di terra dovrebbero essere solo temporanei e i proprietari andrebbero risarciti in maniera adeguata. Peccato che come ha ricordato Etkes "Niente di tutto questo è mai avvenuto e la pratica ha continuato a essere utilizzata nel tempo, subendo una ulteriore accelerazione nell’ultimo periodo”. 

Sotto il governo Netanyahu, infatti, vi è stato un considerevole incremento degli accaparramenti di terra e negli ultimi anni il numero degli insediamenti è aumentato del 20%, una conseguenza dell’interruzione nel 2014 dei colloqui di pace e della successiva escalation di violenze, di fronte alla quale si è rivelata sempre più evidente l’inerzia e l'impotenza della comunità internazionale. Una strategia che fino ad oggi ha trovato il benestare americano e che ha indispettito tutto il mondo arabo e non solo quello palestinese. Solo qualche settimana fa il senatore americano Lindsey Graham, vicino al gruppo di potere del presidente Trump, in visita nel Golan accompagnato dal premier Netanyahu e dall’ambasciatore americano in Israele David Friedmanaveva anticipato al primo ministro israeliano l'intenzione “di fare del suo meglio per far adottare un progetto di legge relativo a un riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan”. Progetto di legge che in realtà è già stato elaborato dai senatori repubblicani Ted Cruz Tom Cotton, che insieme al rappresentante del partito democratico Mike Gallagher, hanno più volte sostenuto che “è giunto il momento di riconoscere la realtà politica sul campo e di abbandonare le aspettative relative ad un accordo di pace tra Israele e Siria”. Una scelta unilaterale da parte di Washington che Trump ha ufficialmente sottoscritto la scorsa settimana, e come avvenuto per il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele è in totale violazione alle risoluzioni dell’Onu.

Secondo The Times of Israel, il primo media cha ha dato la notizia delle dichiarazioni di Graham, “Netanyahu utilizza le sue buone relazioni interpersonali con Washington in chiave elettorale presentando una possibile legittimazione sul Golan  come un successo personale, in contrapposizione all’incapacità dei suoi avversari politici”, il tutto in vista delle ormai imminenti elezioni del 9 aprile che eleggeranno  i 120 membri della Knesset, il parlamento israeliano. Per Abdel Bari Atwan, direttore di Rai al Youm, ripreso da Nena News: “Dopo che Netanyahu non è riuscito a creare una zona tampone di sicurezza nel sud della Siria  con l’utilizzo dei gruppi jihadisti contrapposti al governo di Damasco (come documentato dagli stessi osservatori Onu e denunciato dal Segretario Generale Guterres), adesso si rivolge a Washington nella speranza di ottenere un risultato importante, soprattutto in chiave elettorale”. La Siria intanto non ha perso l’occasione di far sentire la sua voce e mentre il Ministero degli affari esteri siriano ha denunciato ufficialmente la posizione degli USA come “l’ennesimo esempio dell’arroganza dell’amministrazione Trump”, mettendo in guardia Kristin Lund, responsabile dell’Untso (organismo Onu che monitora la tregua sul Golan) “riguardo ad una possibile escalation nell’area”, il vice ministro degli esteri siriano Feysal Meqdad, ha avvertito che “Se Israele non si ritirerà dal Golan occupato Damasco non esiterà a ricorrere alla forza per liberare parte del territorio siriano”. 

Intanto la posizione delle Nazioni Unite, rispetto allo status giuridico delle Alture del Golan, resta invariata: “Sono un territorio occupato illegalmente da Israele”. Già lo scorso anno il Consiglio di Sicurezza aveva espresso forte preoccupazione in merito alle dichiarazioni del premier Netanyahu e alla volontà di Tel Aviv di considerare quel territorio di sua appartenenza e aveva ribadito che “in base alla Risoluzione 497, del 1981, la decisione da parte israeliana di imporre le sue leggi e la sua amministrazione nei territori del Golan siriano occupato è totalmente illegittima, senza nessun fondamento o riconoscimento internazionale”. Così mentre Benjamin Netanyahu alza il tiro sui territori espropriati in chiave elettorale il governo siriano ha riattivato la sua principale base militare a Quneitra, all’interno della fascia di sicurezza Onu che divide Siria e Israele, per poter rispondere meglio ad un eventuale attacco dell’esercito israeliano. Che sia solo un bluff elettorale?

Alessandro Graziadei

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