venerdì 31 maggio 2019

La “compensazione climatica” non esiste

Sono vegetariano, quindi se ogni tanto scarto del cibo è lo stesso; vesto Patagonia, quindi se compro una giacca all'anno è lo stesso; uso poco la macchina, quindi se ogni tanto mi sposto con un diesel da 400 cavalli è lo stesso... Purtroppo non  è così. A differenza di quanto accade nella dimensione relazionale, dove se sbaglio ho spesso la possibilità di scusarmi e rimediare all'errore, magari con un’azione riparatrice o una compensazione economica, la mia impronta ecologica non può essere “smussata” allo stesso modo. A spiegarcelo è lo studio “Why People Harm the Environment Although They Try to Treat It Well: An Evolutionary-Cognitive Perspective on Climate Compensation”, pubblicato lo scorso 4 marzo su Frontiers in  Psychology da Patrik Sörqvist e Linda Langeborg dell’Università svedese di Gävle.
Secondo i due studiosi il nostro sistema economico ha sposato per anni la teoria della “compensazione climatica” e quotidianamente ci suggerisce di vivere la relazione con la nostra impronta ecologica come uno scambio sociale, nella convinzione che un comportamento “rispettoso” possa sempre compensare un comportamento “dannoso”. Una sorta di “baratto ecologico” che ci permetterebbe di rendere più accettabile un consumismo sul quale per anni si è fondata anche la discutibile strategia dei crediti di carbonio, cioè certificati negoziabili equivalenti ad una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie ad un progetto di tutela ambientale realizzato con lo scopo ridurre o riassorbire le emissioni di CO2 derivati da comportamenti o produzioni industriali ben poco sostenibili. Bene, oggi sappiamo che questa non era la strada giusta, perché “Questo atteggiamento, in realtà, può fare più male che bene all'ambiente”.
Secondo Sörqvist e Langeborg, per stati, aziende o singoli individui vale la stessa regola: “è praticamente impossibile tenere traccia dell’impatto ambientale di ognuna delle nostre azioni, quindi per valutare la nostra impronta ecologica ricorriamo a regole empiriche mentali”. Per Sörqvist, che nell’Università di Gävle insegna ingegneria ambientale, “Il problema è che questi giudizi innati e intuitivi si sono evoluti per affrontare l’interazione sociale, dove le decisioni moralmente rette e ingiuste possono annullarsi a vicenda”. Nel conteso ambientale, in primis in quello montano, “questo pensiero sociale sul dare e avere porta a pensare erroneamente che le scelte verdi possano compensare anche quelle insostenibili. In realtà tutti i consumi causano danni permanenti all’ambiente, e le opzioni verdi sono nel migliore dei casi solo meno dannose, ma quasi mai riparatrici”.
Quindi, se è vero che è necessario seguire comportamenti virtuosi e sostenibili, non vuol dire che questi siano anche automaticamente compensativi e l’unica cosa veramente utile che oggi potremmo fare per l’ambiente è consumare meno. Per questo “Termini come eco-friendly o green sono spesso ingannevoli e incoraggiano decisioni e comportamenti meno dannosi, ma non certo buoni per l’ambiente” ha spiegato la Lagenborg, che all'Università di Gävle insegna psicologia ambientale. Che fare quindi? Una legislazione più severa nei confronti dell’inquinamento generato dalla filiera di produzione (come propone il pacchetto legislativo sull’economia circolare  adottato in via definitiva il 18 aprile del 2018 a Strasburgo dal Parlamento europeo) e una stima obbligatoria e pubblica dell’impronta di carbonio dei singoli prodotti o servizi potrebbero rappresentare un buon inizio. Ma soprattutto serve una nuova e più diffusa cultura basata sull’economia circolare, che ci porti, senza se e senza ma, a fare scelte individuali più consapevoli, sobrie e realmente sostenibili. 

Alessandro Graziadei

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